Domenico Iorio
Tuesday, 24th March 2015 

Domenico Iorio



Questa storia comincia nel 1931. A Maddaloni, paesetto rurale a pochi chilometri da Napoli, nasce Domenico Iorio. E’ il 21 aprile e l’Italia fascista festeggia il Natale di Roma. Gli italiani cantano a squarciagola: “Sole che sorgi libero e giocondo, sui colli nostri i tuoi cavalli doma... tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma...”. La Città Eterna, fondata nel 753 avanti Cristo, compie 2.684 anni. La cosa non dice niente a Domenico, il quale tuttavia, proprio per questa coincidenza, guadagna le sue prime mille lire, dono del governo a tutti i nati in quel giorno, in un’epoca in cui gli artisti più famosi cantano, insieme a “Faccetta nera” e alle altre canzoni dell’Italia imperiale, “se potessi avere mille lire al mese”. Mille lire sono il sogno della nascente borghesia impiegatizia e operaia di un paese che da poco ha chiuso le sue ultime pendenze risorgimentali firmando la pace con lo Stato del Vaticano. Tregua di breve durata, visto che presto, non contenta dei possedimenti oltremare in Libia e in Eritrea, la nostra Italia si caccerà nei guai per realizzare l’ambizione di darsi un più grande impero coloniale, andando alla conquista di un’antica civiltà arroccata sugli altopiani dell’Africa Orientale e che, guarda caso, tutte le altre potenze coloniali hanno accuratamente lasciato tranquilla.

Domenico - nella foto mentre si appresta a brindare con il nipote Gino - nasce quindi sotto una buona stella, ma all’orizzonte cominciano a profilarsi nuvole tempestose e i suoi primi anni di vita trascorrono nella costante attesa del temporale che sconvolgerà il mondo intero. Forse per questo è un bambino irrequieto e cresce con una grande smania di viaggiare, di andare a vedere il mondo prima che sia troppo tardi, cominciando ovviamente da Roma, alla quale è legato dalla data del compleanno. Vuole andare a vedere il Papa. Un bel giorno decide di rompere gli indugi, si aggiusta addosso alla meno peggio la giubba militare del padre e parte. E’ il 1939 e Domenico Iorio ha otto anni. Non ha una lira in tasca, ma questo fatto non ha mai impedito a nessun bambino campano di prendere un treno. Nella carrozza si mischia a una famiglia in viaggio verso Roma, ma quando dalle parti di Cassino arriva il controllore si scopre che manca un biglietto. Alla prima fermata, quella di Roccasecca, lo consegnano ai carabinieri. Poveretti, raccontava Domenico, “li feci scimunire”.

Identificato e confinato negli alloggi della caserma dei carabinieri, se ne sta tranquillo per due giorni, ma al terzo decide di riprendere il viaggio e, non visto, si incammina verso la stazione. La notizia della fuga lo precede e quando arriva ai treni vede che i carabinieri lo stanno cercando. Si costituisce e il giorno dopo i militi lo riconsegnano ai genitori. Punito, mette la testa a posto e torna a scuola. Non per molto e non per colpa sua. L’Europa è in guerra, l’Italia per un po’ tentenna ma poi si schiera dalla parte sbagliata. In Africa, in Grecia, nei Balcani, in Russia i soldati italiani ne pagano il prezzo, mentre a casa i civili muoiono o sopravvivono nell’orrore degli allarmi aerei e dei bombardamenti e i bambini giocano nelle strade fra le macerie degli edifici sventrati dalle bombe. Poi sbarcano gli alleati e sembra che si possa tornare a una parvenza di normalità, tanto che il 20 dicembre 1943 Sebastiano Iorio, il padre di Domenico, esce di casa per andare dal barbiere e poi al funerale di un cugino ucciso dalla camorra. Le strade del centro di Maddaloni sono strette per gli automezzi militari americani. A pochi passi dal salone del barbiere Sebastiano deve appoggiarsi al muro, in una rientranza, per far passare un camion guidato da un militare di colore. Qualcuno si spaventa per lui e lancia un grido, l’autista militare panica, innesta la marcia indietro, non riesce ad arretrare in linea retta e schiaccia Sebastiano contro il muro. Così la famiglia deve celebrare non uno ma due funerali.

Domenico Iorio ha dodici anni ed è orfano di padre, ha frequentato la scuola in condizioni assolutamente anormali, quel tanto che basta per leggere e scrivere e far di conto, ma è un ragazzo sveglio, simpatico e i militari americani della Quinta Armata lo hanno adottato come mascotte. Praticamente è uno di loro. Tanto che, quando arriva l’ordine di trasferirsi a Livorno, qualcuno suggerisce per scherzo di portarlo con loro. Il ragazzo, che già soffre anche per i condizionamenti sociali propri del meridione e sente nella propria vita e nel proprio futuro la presenza minacciosa delle forze criminali che hanno già imposto alla sua famiglia un doppio tributo di sangue, non se lo fa dire due volte e, vestito anche lui da soldato, segue i suoi amici verso la Liguria e resta con loro fino alla fine della guerra, lavorando in cucina e riuscendo di tanto in tanto a tranquillizzare la famiglia sul proprio stato di salute. Fedele al personaggio, quasi come se stesse recitando in un film di De Sica o di Rossellini, arrotonda le entrate con un po’ di contrabbando di sigarette e in una notte senza luna aiuta alcuni pescatori italiani a rubare ottomila litri di nafta da una motovedetta americana. L’odore della nafta gli resta addosso per settimane.

Nel 1945 per il reparto che l’ha adottato arriva il momento di tornare a Napoli per poi rientrare in America. A Domenico l’idea della traversata atlantica piace e non si scolla dagli amici. Non lo fa neanche la sera prima della partenza, quando vanno tutti in Via Roma a fare baldoria. Si ubriacano tutti e finiscono nelle mani della temuta MP, la polizia militare. L’identificazione è fatta attraverso le piastrine che gli ubriachi hanno al collo, ma purtroppo Domenico non ne ha una, si vede che è un quattordicenne e lo lasciano per le strade di Napoli, che lui non conosce. Si perde e non riesce a tornare al reparto in tempo per la partenza della nave, ma non si perde d’animo e riprende il treno per Livorno, dove resta per altri tre anni fra la gente che ha conosciuto e aiutato quand’era un “militare” americano. Nel 1948 l’Italia va al voto e Domenico ne approfitta per tornare a Maddaloni con un “foglio di via” che gli fa risparmiare il biglietto del treno.

Finita la guerra, finiti i giorni delle avventure pazze, Domenico Iorio mette, come si diceva allora, “la testa a posto” e va a lavorare da muratore con uno zio. Ma presto si rende conto del fatto che nel meridione d’Italia è difficile sbarcare il lunario e nel 1958 emigra in Svizzera e poi in Germania, tornando a Maddaloni per le vacanze estive, lui come milioni di altri emigranti. Nella vacanza del 1961 incontra Carmela Messore, di ottima famiglia casertana, con parenti nel mondo di Cinecittà, di quattro anni più giovane. Si sposano il 28 luglio del 1963 e Domenico resta a lavorare in Campania, ma un anno dopo il lavoro è finito e gli tocca ripartire per la Germania, dove, fra un rientro e l’altro per le vacanze, resta fino al 1968, mentre a Caserta la sua famigliola cresce con la nascita di Angela il 10 ottobre del 1964, quella di Sebastiano il 30 gennaio del 1967 e infine quella di Enzo, a Maddaloni, il 6 settembre del 1968.

Nel frattempo le vacanze di Domenico coincidono una volta con quelle di una cugina che si era trasferita in Sud Africa e che riesce a procurargli un’offerta di lavoro in questo paese. Parte da solo e arriva in aereo a Johannesburg il 13 giugno 1968, legato da un contratto con una ditta di costruzioni, ma, memore degli anni giovanili a Livorno, fa un po’ di tutto per incrementare le entrate. La moglie e i tre figli lo raggiungono il primo aprile del 1971. Festeggiano insieme il suo quarantesimo compleanno, ma forse non ricordano nemmeno che anche Roma compie gli anni. Adesso la loro vita imbocca finalmente i binari della normalità. Domenico, con altre centinaia di italiani, lavora alla costruzione del Carlton Centre e si fa apprezzare e benvolere dai dirigenti della Aermarelli, che ha l’appalto dell’impianto dell’aria condizionata. Porta a casa uno stipendio senza gloria e senza infamia, la famiglia non nuota nell’abbondanza, ma la moglie è un’amministratrice come solo le madri italiane di quell’epoca sanno essere e i soldi bastano per mandare i figli a scuola. Niente lussi. Con qualche sacrificio si riesce anche a risparmiare e nel 1981 Carmela può tornare a visitare la famiglia a Maddaloni, mentre Domenico deve aspettare fino al 1992, ma nel 1986 l’intera famiglia riesce a concedersi la prima e unica vacanza a Durban. Mai un soldo di debito. E mai un soldo d’avanzo.

In questa casa povera ma dignitosa, nella quale alle ristrettezze economiche si reagisce con l’ironia e l’arguzia che caratterizzano le genti della Campania, crescono sereni i tre figli di Carmela e Domenico. I tempi e il paese sono favorevoli agli spiriti intraprendenti, alle intelligenze pronte a alle decisioni rapide. La mancanza di mezzi ha i suoi condizionamenti, ma la ricchezza di opportunità offre vie d’uscita impensabili nell’ambiente dal quale Domenico è fuggito. La modesta casetta degli Iorio è nel cuore di Orange Grove, la Piccola Italia di Johannesburg, nata per accogliere gli italiani che lavoravano nella fabbrica di dinamite a Modderfontein, appena qualche chilometro più in là, in aperta campagna, per limitare i danni e le vittime in caso di esplosioni, una delle quali micidiale durante la guerra anglo-boera del 1898-1903. Dopo le elementari, Angela frequenta la scuola per ragazze di Waverley, Sebastiano quella per ragazzi di Highlands North, nella quale la presenza italiana è forte e in quegli anni annovera un gruppo di ragazzi che induce il preside a confessare che “i ragazzi italiani hanno una marcia in più”. Figli di emigrati meridionali e settentrionali, oggi sono quasi tutti imprenditori e professionisti di successo, a dimostrazione di quanto i condizionamenti sociali siano responsabili del divario che esiste in Italia fra nord e sud. Come dimostra anche la vita romanzesca di Domenico Iorio, che a 50 anni dal matrimonio è andato a raggiungere la moglie Carmela, confortato fino all'ultimo dall'affetto profondo e dalla riconoscenza di figli e nipoti, ai quali con la sua intraprendenza e la sua laboriosità ha aperto la strada verso un futuro che in patria non avrebbero neanche potuto sognare.

Lo ricorderemo sempre come un caro amico, ma soprattutto come marito, padre e nonno esemplare.

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