Sulle orme del padre
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- Created on Friday, 21 December 2012 09:16
Settant'anni fa Davide Porta arrivò in Sud Africa, prigioniero di guerra, come altri centomila e più italiani, militari e civili. Ci rimase cinque anni, prima a Zonderwater poi a Worcester, infine in una farm della Breede River Valley. Rientrò in Italia il 28 dicembre 1946. Non odiò mai i luoghi della sua prigionia sudafricana. Al contrario, desiderò per tutta la vita di farvi ritorno, ma morì prima di essere riuscito a realizzare il suo sogno. Lo ha fatto per lui la figlia Maria Teresa, portandolo nel cuore durante il pellegrinaggio in Sud Africa dello scorso novembre con il figlio Domenico Catalano. Questo è il suo racconto di due giornate dense di emozioni e di scoperte:
Una valigia di ricordi
Mi preparo a partire. Una foto di mio padre troneggia sul cassettone della mia camera. Sorride con tenerezza, tenendo sulle ginocchia il mio unico figlio, Domenico. Preparo la valigia. Mi ritorna alla mente la sua. Vorrei riempirla di ricordi. Dei suoi ricordi.
Sacrifici, sofferenze e umiliazioni non avevano impedito a mio padre di amare il Sudafrica. E’ lì che sarebbe voluto tornare. Questo viaggio lo farò soprattutto per lui. Camminerò con rispetto su quel suolo dove lui camminò e lavorò prigioniero. Partirò e guarderò il Sudafrica con i suoi occhi. Mi accompagnerà Domenico.
Il 13 Novembre ad attenderci all’aeroporto di Johannesburg, il gentilissimo Emilio Coccia, insostituibile e instancabile Presidente dell’Associazione Zonderwater Block che avevamo avuto il piacere di conoscere durante un incontro organizzato dal gruppo Zonderwater nel mese di settembre a Ferrara. Non ha buone notizie da comunicarci. Una violenta grandinata si era abbattuta su Zonderwater provocando numerosi danni tra cui la rottura di parecchi vetri, oltre cinquanta alberi piantumati in memoria di tanti ex Pow erano stati danneggiati e la recinzione elettrica a protezione del museo e del cimitero era fuori uso. Ottenere il rimborso da parte dell'assicurazione dell'intero ammontare dei danni si stava già rivelando cosa non facile. I fondi stanziati dal governo italiano sono sempre più esigui e senza le donazioni private è sempre più difficile andare avanti.
Arriviamo davanti a una verde collina. Leggiamo a grandi lettere un nome impresso sul terreno, quello di “Zonderwater”. Il primo desiderio che ho avuto stato quello di immortalare nella mia mente (oltre che nella fotocamera) quei luoghi. La zona è molto vasta. Emilio ci indica la posizione dei vari blocchi: il n° 10 e il n° 3 erano quelli dove era stato mio padre.
Cerco di immaginare come poteva essere stata la sua vita da prigioniero in quei campi, dietro i reticolati. Ad aiutarci nella ricostruzione le minuziose ricerche condotte da Emilio e le preziose testimonianze lasciate dagli ex Pow.
Passiamo attraverso il parco degli Alberi del Ricordo, scattiamo alcune foto e notiamo con rincrescimento i segni lasciati dalla grandine. Fotografiamo gli alberelli appena piantumati e i tabelloni - anch'essi colpiti dalla grandine - con i nomi degli ex Pow a cui gli alberi del ricordo sono stati dedicati. Il nome di mio padre verrà inserito prossimamente, mi informa Emilio. Tra i donatori, notiamo, c'è anche la Federazione Nazionale Gioco del Calcio.
Varchiamo il cancello del cimitero. La grandinata ha lasciato tracce evidenti un po' ovunque. Nonostante ciò non si può non notare con quanta cura sia custodita tutta l'area. Lo sguardo spazia tra le croci bianche. Sento un brivido correre lungo la pelle.
Il sentimento che forse sarebbe più naturale provare sarebbe quello di rabbia per le tanti giovani vite spezzate. Io ho provato solo un forte desiderio di pace. Condivido il pensiero di coloro che dicono di sentirli come Angeli. E' la sensazione che io stessa ho provato.
Entriamo nel Museo. E’ ricco di oggetti, foto, documenti, testimonianze…... Il Museo è diventato troppo piccolo per contenerli tutti.
Ci rechiamo poi nella piccola cappella. Alcuni ex Pow hanno scelto di essere sepolti lì, dentro piccoli loculi, legati anche loro a Zonderwater anche dopo la morte. Tristemente notiamo come la grandine abbia provocato dei veri e propri fori nei vetri delle finestre.
Il tempo scorre veloce. Dobbiamo andare.
Portiamo via un vasetto di quella terra e nel cuore e nella mente il silenzio di quei luoghi. Silenzio che ci auspichiamo continui a non essere dimenticato.
Emilio con cura certosina sta inserendo in un database tutti i dati estratti dai documenti che con caparbietà è riuscito a recuperare dagli archivi militari grazie anche all'aiuto del governo locale: cartelle mediche, reperti autoptici, tessere anagrafiche, le valutazioni che ogni datore di lavoro rilasciava per ogni singolo prigioniero che aveva lavorato per lui. Oltre centomila dossier da tracciare in perfetto ordine e da mettere a disposizione dei congiunti degli ex Pow ma i fondi messi a disposizione dal governo italiano non sono sufficienti a coprire tutte le spese.
Pranziamo con Emilio e uno dei suoi quattro figli. Apprezziamo molto la loro cordiale e informale ospitalità e il piatto di pasta col ragù alla bolognese che il figlio ha cucinato anche per noi. Arriva anche Costanza, una delle figlie di Emilio e, tra le braccia, il suo meraviglioso bambino. Il tempo dei saluti e una foto ricordo e si corre di nuovo in aeroporto per prendere il volo per Cape Town. Salutiamo Emilio - che ci ha riaccompagnati in aeroporto - deve scappare perchè un altro impegno lo aspetta. Lo ringraziamo ancora per tutto il tempo che ha voluto dedicarci.
E’ strano come l’esserci alzati alle 3:45 del mattino per imbarcarci con il primo volo per Johannesburg non ci abbia fatto sentire la benché minima stanchezza. E il giorno precedente a questo non era stato certo meno ricco di forti emozioni.
Ciro Migliore, che aveva accettato di farci da guida fino alla farm Alfalfa, si era raccomandato di essere puntuali e noi non volevamo mancare a nessun appuntamento. Così,come da programma, alle otto del mattino Domenico ed io eravamo pronti nella hall del nostro Hotel - situato nella superprotetta WaterFront di Cape Town - in attesa di Ciro e di sua moglie Babette. Il loro seppur breve ritardo inizialmente ci aveva fatto stare in ansia. Fortunatamente era dovuto solo al traffico che a quell'ora è normale trovare lungo la strada verso il porto. Tutto andava bene dunque e l'appuntamento non era saltato.
Ciro era stato il primo di alcune guide da me contattate per il nostro viaggio verso Worcester e la Breed River Valley a rispondere alla mia richiesta d'informazioni. Era mio desidero conoscere i proprietari della farm dove mio padre lavorò, e visitare quei luoghi. Ma avevo bisogno di una guida italiana che conoscesse la zona o che vivesse in Sud Africa da anni. Alcune notizie forniteci da viaggiatori reggiani, miei conoscenti, infatti, ci avevano sconsigliato per motivi di sicurezza di avventurarci da soli lungo la strada che da Cape Town s'inoltra verso l'interno.
L'agente di viaggi di Reggio, da me contattata, non aveva accettato la mia richiesta. Poteva aiutarmi solo con le visite di gruppo ma non con quelle individuali, avrei dovuto organizzarle da sola. Contattai così diverse agenzie in Sud Africa che mi erano state suggerite e trovai anche l'indirizzo email dell'agenzia Italtouring, intestata a Francesco Migliore che inizialmente non sapevo fosse il figlio del direttore della Gazzetta del Sud Africa, Ciro appunto.
Il primo tentativo di viaggio per essere a Zonderwater per la commemorazione del 4 Novembre era già fallito. Un gruppo in partenza da Milano a cui avevamo deciso di aggregarci aveva annullato il viaggio. Mio figlio, inoltre, accusava dei problemi di salute che inizialmente mi avevano fatto decidere di annullare anche l'altro che stavo programmando. Fortunatamente, dopo una serie di esami, i suoi disturbi si sono poi rivelati non gravi e controllabili con dei farmaci. Decidemmo così di volare da soli verso il Sud Africa.
La mattina del 12 Novemebre ancora ignoravamo se a venire a prenderci in hotel sarebbe stato Francesco o Ciro, o entrambi. Arriva una coppia di mezza età, sono garbati ed eleganti nei modi. Riconosco Ciro, in compagnia di sua moglie Amabile, per gli amici Babette. Dopo i saluti e le presentazioni, si scusano per il breve ritardo e ci invitano a salire in auto. Domenico siede vicino a Ciro, il guidatore. Io nel sedile posteriore, davanti a Babette. Babette ama molto chiacchierare ma è anche attenta alla guida e si preoccupa che Ciro non sbagli strada e non commetta infrazioni.
Per arrivare a Worcester percorriamo la strada che conduce al Du Toitskloof Pass. Ciro ci spiega che fu costruito da 1500 prigionieri Italiani concentrati nella fattoria “Keerweder” durante la II Guerra Mondiale. Durante la nostra breve sosta sotto l'Huguenot Peak riusciamo, con commozione, a vedere (cosa non semplice) la croce eretta su di esso a ricordo dell'operosa presenza dei prigionieri e dell’amicizia che si strinse fra loro e il popolo di Paarl. Mio padre era un militare del Genio addestrato anche a piazzare cariche esplosive ma attualmente non ho documenti che attestino che abbia lavorato alla costruzione di quel passo. Attraversiamo il tunnel e il mio pensiero va anche a quei prigionieri che persero la vita per costruirlo.
Proseguiamo per Worcester. Ci aspetta la Signora Jeanette Van der Merwe. E’ grazie a lei se sono entrata in contatto per la prima volta con i proprietari della farm ALFALFA. La chiamiamo per avere indicazioni su come raggiungere la sua casa. Ci dice che ci verrà incontro suo marito Freddie e sarà lui a guidarci. Freddie ci raggiunge pochi minuti dopo, all'area di servizio dove ci siamo fermati per una breve sosta e per telefonare. Dopo le presentazioni, Freddie invita me e Domenico a salire in auto con lui. Ciro e Babette ci seguono con il loro van.
Da subito la conversazione è informale, parla un inglese a me comprensibile e così come era stato con sua moglie Jeanette, non mi fa sentire un'estranea. Durante il percorso per raggiungere la sua casa chiedo a Freddie se può dare indicazioni stradali a Ciro per raggiungere il Cimitero Italiano di Worcester e la farm Alfalfa. Babette era infatti preoccupata che Ciro potesse perdersi, come pare gli fosse già successo durante un'altra visita. Freddie mi rassicura, ci avrebbe dato lui tutte le indicazioni necessarie, sarebbe stato impossibile perderci.
Arriviamo davanti a una graziosa villetta. Ad attenderci davanti alla porta d'ingresso c'è lei, Jeanette. Avevo già avuto occasione di conoscere sia lei che suo marito attraverso le foto pubblicate sul suo account Facebook, la riconosco subito così come ho riconosciuto subito Freddie. Sono tutti e due molto alti, imponenti, protettivi, con lo sguardo attento e sorridente. Un abbraccio e ci invita ad entrare nella sua casa.
Ripercorriamo con Jeanette i momenti in cui io, nella mie ricerche per trovare la farm Alfalfa e i suoi proprietari, i Signori Van der Merwe, la contattai. Incredibilmente avevo contattato la persona giusta. Lei, pur non facendo parte di quella famiglia, conosceva quella farm e mi disse che ne avrebbe contattato i proprietari per chieder loro se poteva darmi il loro indirizzo email. Ricevette una risposta positiva. Contattai il giorno stesso il Dr Alvi Van der Merwe, figlio di Bertie, quel bambino che era accanto a mio padre in una di quelle foto che aveva conservato così caramente per tutta la sua vita. Ricevetti risposta cortese e immediata. Mi diede notizie della famiglia e diceva che io e mio figlio saremmo stati i benvenuti. E quella mattina mi accingevo ad incontrarli. Jeanette e Freddie erano eccitati per me. Erano partecipi e si erano adoperati perchè io realizzassi il mio desiderio. Non avevo mai sentito venir meno il loro appoggio.
Sono stati stupefacenti.
Alle 12 ci aspettano alla farm Alfalfa/Alvi's Drift, dobbiamo salutarli. Il nostro è un arrivederci. Freddie, premurosamente, si offre di accompagnarci anche al Cimitero di Worcester per una breve visita. Lo troviamo in discrete condizioni. Per la commemorazione del 4 Novembre è stato rimesso in ordine ma è chiaro che è stato oggetto di atti vandalici e la mancanza del cancello all’ingresso e di una recinzione lo rendono vulnerabile. Notiamo come poco distante dal cimitero vi siano parecchie baraccopoli. Si pensa che gli autori degli atti vandalici a danno del Cimitero provengano da là. Disgraziati alla ricerca di qualcosa da rubare che non si fanno scrupolo di profanare luoghi consacrati.
Proseguiamo poi per quella che oggi si chiama la Breede River Valley. Freddie, che non ci aveva abbandonati un solo istante, ci precede e si ferma quando siamo in prossimità della farm. Si vedono gli animali al pascolo e, poco distante, il ponte che attraversa il fiume Breede. Proprio quello fatto costruire da Albertus Viljoen - Alvi - Van der Merwe 1.o - nel lontano 1928 per consentire l'accesso alla sua proprietà.
Freddie ci saluta, deve lasciarci e tornare a Worcester. Proseguiamo verso la farm nella direzione da lui indicata. E l'eccitazione cresce. Come in un sogno davanti a me leggo “ALFALFA 1947” - la farm aveva preso il nome dall'erba medica - alfalfa appunto - che veniva - e viene ancora oggi - coltivata nei campi come foraggio per il bestiame - raccontava mio padre e ci viene confermato più tardi anche dal nipote di Albertus - Dott. Alvi Van der Merwe - durante la visita alle loro proprietà.
Il nome di quella farm lo avevo letto tante volte in quella lettera del signor Albertus Viljoen 1.o, che mio padre conservava con tanta cura.
Percorriamo un viale bordato in entrambi i lati da siepi di rose bianche in piena fioritura che conduce all'azienda Alvi's Drift. Il primo ad accoglierci è proprio il signor Bertie Van der Merwe. Si ricorda di mio padre e ricorda anche i nomi degli altri prigionieri che lavoravano per loro e me li indica uno ad uno nella foto da me portata e che lo ritraeva ancora bambino in mezzo a loro. Scherzando mi fa notare che allora aveva più capelli di quanti non ne abbia ora. Mi dice che arriverà anche una delle sue sorelle, anche lei ritratta nella foto di famiglia che mio padre conservava, e me la indica. In sella ad una moto arriva Dr Alvi, lo riconosco perchè ho avuto modo di conoscerlo nelle foto pubblicate nel sito dell'azienda il cui indirizzo mi era stato da lui stesso indicato dopo il nostro primo contatto. E' alto, gentile, con folti capelli neri. Si scusa perchè deve recarsi a prendere la figlia a scuola. Ci raggiungerà più tardi.
Subito dopo arrivano anche gli altri componenti della famiglia, la sorella del signor Bertie con il marito, la signora Mauberna, moglie del signor Bertie, con Emmarentia, la loro figlia, in compagnia della sua bella e dolcissima bimba di quattro anni, Vida. Anche l'altro figlio, Dr Johan, arriverà in sella alla sua moto da cross. Sono tutti di una gentilezza familiare e ci fanno sentire a nostro agio.
Ci accompagnano a visitare quei luoghi che conobbe mio padre. Lo stanzino, ornato ed ombreggiato da una folta pianta di profumati gelsomini in fiore, utilizzato dai prigionieri come cella frigorifera dove conservavano la pecora che una volta a settimana gli veniva consegnata per il loro pasto. “Mangiavamo la carne tutti i giorni - raccontava mio padre - ad eccezione del Venerdì, quel giorno mangiavamo il pesce.”
Non c’era più l’alloggio dei prigionieri che si intravede nelle foto conservate da mio padre. Fu demolito sei anni fa, dopo che un albero si abbatté su di esso danneggiandolo rreparabilmente.
E’ il momento dei ricordi e del racconto di alcuni episodi legati ai prigionieri…
Ci viene poi offerto il pranzo. Sono sempre più sorpresa e toccata dalla cordiale ospitalità a noi riservata. Entriamo nella sala da pranzo. La tavola è deliziosamente apparecchiata. Si respira piacevolmente un’aria d’altri tempi. Prima di sederci a tavola recitiamo una preghiera di ringraziamento…
Il pranzo è squisito e accompagnato da ottimi vini e formaggi. Tutto è di loro produzione.
Il Dott. Alvi si offre di prepararci un espresso. Nel vedere le facce un po' perplesse di noi italiani, ci rassicura. Il caffè che ci offre è effettivamente buono, niente da invidiare a quello che beviamo in Italia.
Dopo pranzo, ci invita a seguirlo e visitare le sue cantine. Nell'ampia sala di degustazione, un grande camino e un lungo tavolo con intorno otto sedie con i braccioli di legno. Grandi botti di rovere negli angoli della sala. Alcune bocche di lupo sul pavimento lasciano intravedere le bottiglie allineate nelle cantine del piano interrato. "Tutto là sotto è rimasto invariato, come quando c'era suo padre" - mi dice il Dr Alvi. Appesi alle pareti i ritratti del nonno Albertus Viljoen Van der Merwe 1.o - il fondatore - e colui che scrisse quella lettera a mio padre il 9 Gennaio del 1947 - nonché grande campione di Rugby con la squadra degli Springboks. Alle pareti i prestigiosi riconoscimenti ricevuti.
Le numerose botti allineate di rovere europeo e americano, le capienti cisterne - Dr Alvi si ferma davanti a una di queste e divertito ci chiede quanti litri pensiamo possa contenere - non ne abbiamo idea naturalmente - una sola di quelle cisterne contiene quanto la produzione di un'azienda vinicola media sudafricana. E lo dice con semplicità e fierezza. Non c'è arroganza nè presunzione nelle sue parole nè nei suoi occhi. Visitiamo la parte nuova e poi mi indica quella antica, quella dove mio padre lavorò… .
Visitiamo poi, a bordo di un fuoristrada, l'immensa distesa di vigneti, gli agrumeti, e i frutteti dai quali si raccolgono anche le pesche che vengono poi sciroppate e distribuite in tutto il mondo, anche in Italia.
Il lungo fiume, dove probabilmente sorgerà un ristorante, e la zona alluvionale.
Tante cose sono cambiate dai tempi in cui mio padre fu là ma tante le ho trovate.
Non siamo riusciti per mancanza di tempo a visitare tutte le loro proprietà, ci hanno invitati a tornare.
La Breede River Valley certamente non meno suggestiva, sicuramente umanamente più autentica di quella trovata nel paradiso turistico di Waterfront a Cape Town.
Lasciamo il Sud Africa con il desiderio di tornare molto presto. - Maria Teresa Porta
La nostra testimonianza
Fin qui Maria Teresa. Adesso tocca a noi, che le siamo stati accanto in questo suo pellegrinaggio con il figlio Domenico sulle orme del padre e nonno, completare il suo racconto con le osservazioni di chi ha compiuto il percorso in uno stato d'animo un po' più distaccato ma con il desiderio di capire. Ecco: capire. Noi pensiamo che, oltre che il desiderio di ritrovare qualcosa di suo padre nella terra in cui era stato sottoposto a prove durissime, la molla che spingeva Maria Teresa fosse anche il desiderio di capire. Capire prima di tutto perché il padre fosse rimasto così fortemente attaccato emotivamente al Sud Africa dopo avervi vissuto da prigioniero. Qualcosa aveva cominciato a intuire nella lunga ricerca condotta da casa per identificare i luoghi della prigionia.
I documenti di cui disponeva - una lettera e i racconti del padre - non bastavano per risalire alle esatte coordinate. Certo, sapeva quasi tutto di Zonderwater, essendo anche entrata in contatto con il gruppo dei discendenti dei prigionieri che fa di tutto per mantenerne intatta la memoria, ma suo padre era rimasto nella "città di tende" a nord di Pretoria soltanto per la prima parte dei suoi anni di prigionia, dopo di che i riferimenti del suo soggiorno forzato in Sud Africa erano soltanto alcuni nomi: la città di Woster, l'azienda agricola Alfalfa e la famiglia Van der Merwe nella provincia del Capo, che all'epoca era grande almeno due volte l'Italia, estendendosi da Port Elizabeth fino a Upington e a Città del Capo. Senza contare il fatto che il cognome Van der Merwe è il più diffuso in questo paese, tanto che nelle barzellette fa il paio con il nostro Pierino.
La ricerca di Maria approdò in quel luogo miracoloso che si chiama Internet, dove le riuscì di scoprire una signora Van der Merwe che abitava in una città con un nome che suonava alla lontana come il suo Woster, ma si scriveva Worcester. Le lasciò un messaggio su Facebook ed ebbe risposta. La signora Jeanette Van der Merwe non soltanto le rispose, ma le disse che conosceva la farm Alfalfa, sapeva dove era situata e si offrì di contattarne i proprietari. E arrivò la conferma: sì, Bertie Van der Merwe, proprietario di Alfa e di Alvi's Drift, sulla sponda del fiume Breede, nella valle omonima, a una trentina di chilometri da Worcester, non soltanto ricordava i prigionieri di guerra italiani che avevano lavorato per il padre settant'anni prima, ma ne aveva anche memorizzato così bene i nomi e i lineamenti da poterli indicare uno per uno su una vecchia foto in cui lui stesso era in posa fra loro, un bambino di 6 anni fra giovanotti robusti e sorridenti.
A questo punto della storia entriamo in scena noi. Maria Teresa ci contatta il 22 settembre 2012. Le organizziamo l'itinerario: Du Toit's Kloof Pass, sosta sotto l'Huguenot Peak, visita ai Van der Merwe di Worcester, sosta al Cimitero di Guerra Italiano e visita ai Van der Merwe di Alvi's Drift. La segretaria del direttore dell'azienda, che si chiama Sanet Stemmet ed è gentilissima, non solo conferma che possiamo visitare la farm, ma anche che i Van der Merwe ci vogliono ospiti a pranzo con loro lunedì 12 novembre, non prima perché il dottor Alvi Van Der Merwe, figlio di Bertie, deve rientrare da un viaggio in Europa. Ovviamente accettiamo.
La mattina del 12 novembre passiamo (io e mia moglie Amabile) a raccogliere Maria Teresa e Domenico al Waterfront, davanti al Victoria & Alfred Hotel. Siamo lievemente in ritardo a causa del solito ingorgo del traffico a quell'ora del mattino sulla strada che da Vredehoek, dove abbiamo dormito in casa di amici, scende verso il porto. Lei ha un aspetto molto giovanile e sembra la sorella di Domenico più che la mamma. Il nervosismo dovuto ai dieci minuti di ritardo svanisce e fin da subito la conversazione si spoglia di ogni formalità. Prima sosta lungo i tornanti della strada che sale dalla valle di Paarl verso Worcester, là dove il 23 ottobre 1984 fu inaugurata la targa prodotta dalla Zecca Pagliari e donata dal dottor Marino Chiavelli a ricordo dei prigionieri di guerra italiani che lottarono per due anni contro la montagna a colpi di cariche di dinamite, fino a quota 820, per dare al Sud Africa una via di comunicazione moderna e più diretta fra Città del Capo e l'interno del paese. Dalla piazzola di sosta si riesce a intravvedere sulla vetta del Picco degli Ugonotti la croce di metallo che in quegli stessi giorni del 1984 ha preso il posto, io presente, dell'ultima di tante croci di legno con cui gli abitanti della valle avevano regolarmente sostituito la prima croce portata a spalle fino in cima dai più bravi scalatori fra i detenuti italiani.
Seconda tappa al distributore di benzina appena fuori Worcester per contattare telefonicamente Jeanette, la quale, piuttosto che spiegarci come arrivare a casa sua, ci dice sbrigativamente: "Non muovetevi di lì, viene a prendervi mio marito Freddie", il quale si fa i primi chilometri per essere utile a dei perfetti sconosciuti. Non solo. A casa loro siamo accolti come vecchi amici, ci offrono un rinfresco e ci raccontano come ebbero successo nella loro ricerca dei Van der Merwe di Alvi's Drift, proprietari di diverse farm, fra le quali Alfalfa. Non possiamo trattenerci a lungo, perché vorremmo anche passare per il cimitero e sostare un momento prima di andare alla ricerca della farm. Ma Freddie ci tranquillizza: "Niente paura, non ci vorrà molto, vi accompagno io".
Penso che a questo punto Maria abbia acquisito la certezza di aver capito perché il padre amasse tanto il Sud Africa. Ecco qui, infatti, due sconosciuti che già tanto utili si erano rivelati nella ricerca, offrirsi addirittura di fare decine di chilometri per portarci fino ad Alfalfa. Suo padre, pur prigioniero, doveva aver sperimentato in quegli anni bui una buona dose di questa straordinaria umanità, a volte anche dura e intransigente, che i sudafricani, di ogni provenienza e di ogni colore, sanno infallibilmente manifestare nei momenti del bisogno. Forse è un dono che questa terra fa a coloro che la amano e ne sanno ascoltare le vibrazioni.
Il cimitero, devastato ripetutamente nei mesi passati, era stato da poco in qualche modo reso presentabile per la commemorazione del 4 novembre e quindi a Maria e Domenico è stato risparmiato il dispiacere di vedere le croci abbattute e le lapidi infrante e calpestate, ma i segni dell'inciviltà più bieca erano comunque evidenti nel fatto che quello scampolo di terra consacrata al riposo degli italiani morti durante la prigionia non avesse più un recinto e un cancello a proteggerlo dagli animali a due gambe che di notte si aggirano fra le tombe alla ricerca di ogni oggetto che possa essere barattato per una bottiglia di alcol o una dose di droga.
Meno di mezz'ora dopo arriviamo in vista del fiume Breede, che in quel punto è largo e gonfio d'acqua, e Freddie torna indietro con la sua vettura a prendere il nipotino che esce da scuola, mentre noi attraversiamo un ponte e un guado fra operai al lavoro e cartelli che avvertono del rischio di improvvise esondazioni, senza preavviso, qualora vi siano piogge abbondanti sulle montagne circostanti. Fortunatamente non ci sono nuvole al nostro orizzonte e, dopo un momento d'incertezza al bivio, fermiamo il Combi davanti a una cantina che espone orgogliosamente il cartello Alvi's Drift sulla facciata incorniciata da una meravigliosa cascata di fiori di bouganvillea. Quasi insieme a noi arriva in moto un giovanotto atletico e cordiale. E' il dottor Alvi Van der Merwe, che ha lasciato la carriera di medico per dedicare le sue cure all'azienda di famiglia, così come hanno fatto il fratello Johan, avvocato, e la sorella Emmarentia perché il padre Bertie comincia a sentire il peso degli anni e ha dato un ultimatum: "O ve ne occupate voi o vendo". Alvi's Drift, ci spiega poi il figlio che ne condivide il nome, trasmessogli dal nonno, è la più grante "Wine Estate", azienda vinicola, privata del Sud Africa, anche se la gran parte dell'uva prodotta va venduta ad altri vinificatori delle valli di Worcester e di Robertson.
Qui il pellegrinaggio di Maria assume un'intensità nuova. E' come se si muovesse su terreno consacrato, fra i testimoni viventi e di pietra, di un periodo della vita del padre che per qualche motivo le è divenuto estremamente caro, come se sentisse che proprio quel luogo e quegli anni abbiano fatto nascere dal prigioniero di guerra Davide Porta, numero di matricola 148916, l'uomo che qualche anno dopo sarebbe divenuto suo padre. Qui Maria è entrata in contatto con lo spirito di Davide che per lei aleggiava ancora fra il fiume, la casa, gli alberi e i campi che non riuscì mai a tornare a vedere.
Qui - spiegavano Bertie e la moglie Muberna - c'era il minuscolo edificio dove vivevano i sei prigionieri che sono rimasti con noi più a lungo; qui una volta la settimana ricevevano la razione di carne fresca; qui, in questa nicchia in muratura completamente coperta di rampicanti per mantenerla fresca, la carne si conservava come in un moderno frigorifero; là c'era la vecchia cantina e là i giovani italiani si sdraiavano sull'erba. E Maria incalzava con domande ispiratele dai racconti di Davide, sostando in ogni luogo un momento, toccando muri e piante come a cercare un residuo dell'energia vitale di quel giovanotto che ancora non era suo padre.
L'ospitalità dei Van der Merwe è stata fantastica. L'intera famiglia si è raccolta attorno agli ospiti venuti in pellegrinaggio dall'Italia e anche da parte loro si percepiva un forte desiderio di capire quali sentimenti, quali ragioni e bisogni interiori avessero causato questo viaggio di migliaia di chilometri. E loro stessi sono per un poco stati pellegrini, ripercorrendo nella memoria i sentieri dei ricordi per poter raccontare qualche episodio semi-dimenticato o far luce su un ricordo di Maria appena sfumato. Ci hanno ospitati a pranzo e hanno fatto visitare a Maria e Domenico i campi d'erba medica (alfalfa), i prati con il bestiame al pascolo, i vigneti quasi pronti per la vendemmia ormai prossima in quella valle riscaldata dal sole africano. Tutti sono rimasti con noi fino al momento della separazione e Bertie ha perfino rispolverato il suo latino di lontanissimi giorni di scuola per decifrare da solo le note biografiche del suo amico Davide Porta, riconosciuto senza esitazione sulle vecchie foto portate da Maria, delle quali ha voluto copia per ricostruire a uso di visitatori futuri la memoria dei sei giovani soldati italiani che durante la guerra entrarono nel cuore della famiglia che li aveva accolti come lavoratori forzati e che li aveva visti ripartire come amici che non avrebbero mai dimenticato. Tanto che una lettera indirizzata a Davide da Albertus, padre di Bertie, dopo il rientro in Italia, è in gran parte scritta in italiano.
Ora, ne siamo certi, Maria Teresa sa esattamente perché suo padre ha amato tanto questo paese e i suoi anni di prigionia nella Breede River Valley. - Ciro Migliore
Il soldato Davide Porta
Davide Porta era orfano di padre, ucciso nella prima guerra mondiale quando lui era appena nato, ma ciononostante il primo aprile 1939 fu arruolato, perché la patria aveva bisogno di tante baionette per affrontare la follia collettiva in cui il mondo stava per precipitare. Fu prima nel secondo Battaglione del Genio Minatori di stanza a Verona, quindicesima Compagnia, e poi trasferito alla ventiseiesima compagnia, con la quale nel maggio del 1940 sbarcò in Libia per andare a rinforzare lo schieramento italo-tedesco a Tobruk, in Cirenaica. Il 10 giugno 1940, all'entrata in guerra dell'Italia, era di stanza a Bardia, poco lontano dal confine con l'Egitto, dal quale sarebbero arrivate le offensive alleate. Pochi mesi dopo, il 21 gennaio 1941, fu fatto prigioniero con migliaia di altri soldati italiani, a circa 13 chilometri da Tobruk, verso Derna. Dieci giorni dopo, il primo di febbraio 1941, fu avviato al campo di prigionia, smistamento e disinfestamento di Alessandria d'Egitto e un mese dopo trasferito al campo dei prigionieri di guerra numero 309 Kassasin, cage 13 (gabbia), nei pressi di Ismailia.
Nel settembre del 1941 scappò da quella che lui riteneva una morte certa. La sete diventava ogni giorno più insopportabile e sempre più difficile da soddisfare a causa della poca acqua che veniva distribuita ai prigionieri quotidianamente. Dopo essere stato colpito di striscio da una pallottola sparata da una sentinella per aver soccorso - portandogli dell'acqua - un suo commilitone che giaceva esanime, decise che se proprio doveva morire sarebbe stato dopo aver almeno tentato la fuga da quel campo di prigionia. Fu così che decise di nascondersi su un camion che scoprì successivamente lo avrebbe condotto verso l'imbarco per il Sud Africa. Una volta a Zonderwater fu assegnato al decimo blocco dell'immensa distesa di tende eretta sui terreni adiacenti al carcere ivi preesistente. Ci rimase fino a metà del 1943, quando l'armistizio concluso dall'Italia diede al Sud Africa la possibilità di far uscire dai campi di prigionia gli italiani che volessero essere assegnati a campi di lavoro o ad aziende agricole disposte a utilizzarli come manodopera a buon mercato. Così il 28 luglio 1943 Davide fu trasferito a Worcester, nel campo prigionieri 209, e poi alla Farm Alfalfa, insieme con diversi commilitoni. Lui e altri cinque vi rimasero per tutto il resto della prigionia. Nell'aprile del 1946, un anno dopo la cessazione delle ostilità, tanto ci volle per rimpatriare centomila prigionieri, ritornò a Zonderwater, nel blocco numero 3, in attesa del rimpatrio, che avvenne il 10 dicembre 1946 con l'imbarco a Durban sulla nave inglese "Maloja", che arrivò a Napoli il 28 dicembre 1946. Mandato a casa in attesa del congedo illimitato, il 5 marzo 1947 ritirò il foglio di congedo al Distretto Militare di Oristano.
Oltre a essere un soldato del Genio - dice la sua breve nota biografica - era un muratore e con la sua opera aveva contribuito alla costruzione di strade, opere di bonifica ed edifici. Raccontava di aver prodotto a mano tantissimi mattoni per l'edificazione di quelle opere. A Worcester aveva lavorato anche come supervisore nelle vigne del signor Albertus Viljoen Van der Merwe 1.o. Con altri compagni di prigionia aveva insegnato l'italiano ai proprietari della farm (e la lettera di Albertus ne è testimonianza). Parlava l'afrikaans e qualche parola di inglese.