Bella Italia, amate sponde...
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- Created on Monday, 19 November 2012 10:36
La Sicilia di Mario Angeli -
“Bella Italia, amate sponde / pur vi torno a riveder”: così cantava Vincenzo Monti al momento del suo ritorno in Italia dall’esilio francese, grazie alla vittoria di Napoleone sugli Austriaci nella battaglia di Marengo, nel 1801: l’Italia passava da un padrone all’altro, ma agli occhi del poeta le truppe francesi apparvero come un esercito di liberazione.
Il Monti non è ricordato né per la coerenza politica, essendo state piuttosto volubili le sue simpatie verso i potenti di turno, né per la qualità della vasta produzione poetica; certamente fu e rimane celebre e pregiata la sua impareggiabile traduzione dell’Iliade, “Cantami o diva del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei…”: per molti questo verso evoca dolci e lontani ricordi scolastici.
Ma qui interessa l’affettuoso saluto all’Italia, per farne il titolo di una rubrica che intende offrire ai lettori, soprattutto se lontani ed ancora innamorati della loro terra, qualche immagine virtuale che possa suscitare un po’ di nostalgia, che fa soffrire, ma che si mescola con qualche brivido di dolcezza.
"Era già l'ora che volge il disio ai naviganti e intenerisce il core”: il verso dantesco ben descrive la dolce nostalgia che pervade il cuore di chi è lontano dalla sua patria e non ha mai cessato di amarla.
SICILIA
SEGESTA
Il sole dardeggia fasci di luce rossastra nell'alba tersa, mentre la strada sale tortuosa fra i dossi boscosi.
Il silenzio è assoluto, se non fosse per lo stridio festoso degli uccelli ed il timido frinire delle cicale, rincuorate dal nuovo tepore dell'aria; il ronzio del motore dell'automobile è l'unico elemento stonato in tanta sovrannaturale bellezza.
Una curva secca a sinistra, un'altra a destra, ed ecco emergere dal verde una cortina di colonne doriche, sormontate da un timpano perfetto, fra le quali occhieggia il sole ancora basso sull'orizzonte.
Pian piano si disvela l'intero tempio di Segesta, che domina possente e dorato un poggio solitario, dal quale lo sguardo spazia su un paesaggio incontaminato, impreziosito dai cori delle tragedie greche che ancora sembrano levarsi dall'adiacente teatro.
Questo non è un bel paesaggio da cartolina, ma è il paradiso, dimenticato su una terra violata e saccheggiata da troppi cattivi padroni, che lo rende perciò ancora più inebriante.
AGRIGENTO
Camminando lungo un sentiero sterrato, si stagliano nel cielo quattro colonne che reggono un frontone smozzicato, scarne rovine di un edificio un tempo maestoso, ma sufficienti a ricostruire con gli occhi del cuore l'intero tempio dei Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus, che, scacciati dalle loro dimore insieme agli altri dei della Valle dei templi, ogni notte stellata occhieggiano nel cielo profondo dalla costellazione a loro dedicata.
Forse la serenità olimpica del loro cuore è turbata dal rammarico di non aver saputo compiere anche ad Agrigento il miracolo operato nella battaglia del lago Regillo, quando, nel 499 a.C., accorsero in aiuto dell’esercito di Roma, che combatteva una battaglia decisiva contro i Latini, trascinando alla vittoria i fanti romani.
Fu facile per i due giovani dèi creare allora scompiglio tra le schiere latine, ma non hanno saputo in tempi recenti fermare le mani rapaci della speculazione edilizia, che rende l’immagine di Agrigento, incombente sulla meravigliosa vallata, una delle visioni più brutte d’Italia.
“La più bella città dei mortali” la definì il poeta lirico Pindaro (circa 520-438 a.C.), quando Agrigento gareggiava con le più grandi città della Grecia e della Sicilia per ricchezza e potenza militare, per la raffinatezza dei suoi monumenti e la generosa ospitalità verso letterati ed artisti; l’opulenza della città, o meglio, della sua classe dirigente, era tale che ”gli agrigentini costruiscono case e templi come se non dovessero morire mai e mangiano come se dovessero morire l’indomani”: così dichiarava il filosofo Empedocle (circa 492-430 a.C.), che ben conosceva la sua città, essendovi nato.
L’olimpica spensieratezza degli antichi ci consegnò edifici che restano canoni del bello per sempre, l’ottusa e corrotta insipienza dei contemporanei ha creato con i suoi abusi edilizi il canone del brutto che, per paradosso, giova almeno a godere più intensa l’estasi davanti alla Valle dei Templi.
CEFALÙ’
La rocca di Cefalù si staglia massiccia nel cielo, occupando tutto il panorama.
Man mano ci si avvicina alla città, si stagliano possenti le due torri della cattedrale, bionde come la roccia da cui sono state estratte, che fa da cortina sullo sfondo.
Ruggero il normanno fece edificare questo tempio, preparando per sé un sontuoso sarcofago che mai accolse le sue spoglie e che, suo malgrado, riposano a Palermo, nell’indifferenza dei Cefaludesi.
Cartaginesi, Greci, Romani, Arabi, Normanni lasciarono a Cefalù l’impronta di una città prospera e colta, che Spagnoli, Borboni e nobili ingordi impoverirono e svilirono.
Se ancora avesse lacrime, piangerebbe anche oggi la leggendaria ninfa che, pentita per aver punito con la morte il tradimento del suo amato, tanto pianse che dalle sue lacrime nacque il piccolo fiume Cefalino, che limpido e freddo sgorga dalla montagna ed alimenta il lavatoio ormai muto dei canti delle lavandaie.
Gli occhi penetranti del Cristo Pantocratore, mai così vivi in nessun altro mosaico bizantino, dal catino dell’abside della cattedrale scrutano sereni e rassicuranti il viaggiatore che, poco fuori, incontra però il sorriso beffardo e gli occhi un po’ canzonatori del Ritratto di ignoto di Antonello da Messina: quelli e questi sono i veri occhi di Sicilia, trasparenza ed intrigo, coerenza e capriole.
Mario Angeli