Dal mio balcone: Monti o zombi?
Tuesday, 15th October 2013 

Dal mio balcone: Monti o zombi?

di Mario Angeli -

Oggi esordisce su questa pagina un nuovo collaboratore, al quale diamo un cordiale e grato benvenuto. Si chiama Mario Angeli ed è un docente e dirigente scolastico in pensione che ci ha scritto: "Leggo quotidianamente La Gazzetta e mi complimento con lei per la varietà dei temi e per la buona qualità degli articoli. Se gradisse qualche mia corrispondenza dall'Italia, non se ne faccia riguardo. Sono innamorato del Sud Africa, non solo perché ci sono stato alcune volte e per periodi discretamente lunghi a tenere con mia moglie attività di formazione ai docenti di italiano per conto della Dante (Johannesburg, Cape Town, Pietermaritzburg, Durban, Pretoria), ma anche perché attualmente a Johannesburg lavorano mio figlio e mia moglie (che insegna alla Reddam House).

Nato e residente a Chiari (Brescia), il professor Mario Angeli, dopo aver conseguito la laurea in lettere classiche, è stato docente dal 1966 al 1974 e preside e dirigente scolastico dal 1974 al 2010. L'insegnamento e le attività scolastiche hanno caratterizzato tutta la sua vita lavorativa, ma è stato anche per 8 anni difensore civico presso il suo comune, ha collaborato con periodici locali e con il quotidiano Bresciaoggi. Oggi in pensione, si occupa di volontariato, restando a modo suo nella scuola, più vicino agli ultimi, promuovendo iniziative per finanziare la fornitura di banchi alle scuole di una località del Mozambico (Morrumbene).

Benvenuto nella famiglia della Gazzetta del Sud Africa. Dal suo balcone guarderà per i nostri lettori a quel che succede nella nostra bella, amata e bistrattata Italia. Ecco il suo primo contributo:


Monti o zombi?


Se anche si potessero ridistribuire a casaccio le macchie sul vello del gattopardo, il risultato finale sarebbe esattamente identico al punto di partenza: stesse macchie disseminate in uno splendido armonioso disordine.

La politica italiana, che non è coperta da un vello né splendido né armonioso ma piuttosto da una corazza di scaglie che si sono sedimentate di legislatura in legislatura e che, nei loro colori rosso, nero e bianco, ben rappresentano le contrapposte ideologie a cui si sono ispirati i principali partiti dalla nascita della repubblica in avanti, ha spesso dato l’illusione, per sopravvivere a se stessa, di darsi radicali cambiamenti, ma il risultato ottenuto non ne ha modificato né l’aspetto né tantomeno la sostanza: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, per dirla con G. Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo.

L’Italia alcuni mesi fa è arrivata con gli occhi bendati sul ciglio di un baratro senza ritorno ed ha dovuto fare una brusca frenata; l’opinione pubblica ha accettato con diffuso favore un cambio brusco ed irrituale di governo, l’ha incoraggiato a fare retromarcia ed a trovare un sentiero sicuro che, sebbene al prezzo di grandi sofferenze, porti la nazione sulla strada della salvezza.

Quindi il governo presieduto dal prof. Monti e composto da tecnici e non da politici, ha predisposto un durissimo programma di riforme, che ha cercato di condurre in porto con il sostegno più o meno sincero e convinto di PD, PDL e UDC, nonostante l’opposizione aprioristica di altri partiti che siedono in Parlamento, come Lega e IDV, e di altre formazioni politiche esterne, di scarsa rilevanza numerica, di estrema sinistra e destra.

Il cammino delle riforme del governo dei tecnici è proseguito, incontrando consensi o sbarramenti, a seconda delle circostanze, dalla Confindustria, dai sindacati, dalle corporazioni, dalla stampa, dagli intellettuali, ecc.

In vista delle elezioni politiche della prossima primavera, uno degli obiettivi che il presidente Monti ha espressamente dichiarato è il recupero della fiducia dei cittadini verso la politica e specialmente verso i partiti, che oggi è stimata intorno al 5%. Con l’opinione pubblica largamente favorevole al governo Monti, nonostante la palese impopolarità di alcune sue scelte, come la riforma del sistema pensionistico, l’aumento delle tasse, l’introduzione dell’IMU, le liberalizzazioni, la riforma del lavoro, ecc., i partiti politici hanno dovuto accettare un ruolo più marginale, approvando le riforme spesso con poca convinzione, con scarso dibattito e rapidi voti di fiducia.

Lasciato quindi il “lavoro sporco” al governo, ossia le riforme più sgradevoli ma pur necessarie, i partiti avrebbero potuto e dovuto dedicarsi a ricostruire il rapporto con i cittadini, innanzitutto aprendo e svecchiando i loro apparati, mutando la loro natura di gruppi di potere e soprattutto predisponendo quelle riforme sostanziali ed indispensabili che un governo transitorio non può fare, come una nuova legge elettorale, la riduzione dei costi della politica e del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto ed altre riforme costituzionali, l’abolizione o la profonda revisione del finanziamento pubblico ai partiti, la lotta all’evasione fiscale, che è forse il peggior male dell’Italia, attraverso l’introduzione di norme veramente efficaci, brutali se occorre, senza più scampo e sconti per nessuno. Lavorando intensamente per tutto il 2012, la classe politica avrebbe consentito agli italiani di avviarsi alle elezioni della prossima primavera con rinnovata fiducia verso il futuro, finalmente consapevoli che i titolari della politica sono gli elettori, non i partiti o gli uomini politici, che invece ne sono semplicemente dei delegati.

Ma la classe politica non ha saputo approfittare della situazione propizia e si è persa in vuote diatribe, architettando ipotesi di riforme istituzionali e parlamentari complesse ed ardite, “epocali”, come le chiamano, pur essendo consapevole che il tempo per realizzarle non c’è più: si cambi tutto per non cambiare niente, in perfetto stile gattopardesco. E così i mesi sono trascorsi sterilmente, mentre i partiti si son dati da fare a consolidare le posizioni di rendita, cercando di neutralizzare gli avversari interni ed esterni, con i vecchi notabili riottosi a cedere il passo ai giovani ed a farsi da parte, benché, forse, consapevoli di essere responsabili, tutti, dell’attuale disastro, che viene da molto lontano, e che una classe politica dall’età media di 62 anni (quando quella dei membri della Costituente del 1946  era di 42 anni) non può attribuirsi la competenza esclusiva della gestione del potere, non essendo più neppure in grado di capire i reali disagi e bisogni della società dell’oggi e, soprattutto, del domani.

La riforma elettorale è da tutti ritenuta urgentissima ed indispensabile, ma ogni partito o movimento ne propone una diversa, attento a divergere da quella degli altri, impedendo di fatto l’aggregazione del consenso necessario per un favorevole iter parlamentare.

La riduzione del numero dei parlamentari ed il superamento del bicameralismo perfetto trova tutti concordi, ma ciascun partito si muove con proposte autonome, senza che nulla si concretizzi.

La riduzione dei costi della politica, soprattutto delle dorate retribuzioni dei parlamentari ed affini, ha incontrato adesioni di principio apparentemente convinte, insieme ad altrettante aperte ostilità, ma la commissione appositamente costituita, guidata dal presidente dell’ISTAT Enrico Giovannini, ha incontrato tali difficoltà e paletti frapposti dalla casta, che ha dovuto gettare la spugna. A fronte della soluzione più ovvia ed efficace, ossia la decurtazione di qualche migliaio di euro dello stipendio e dei benefit, i politici hanno imposto che la riduzione fosse calcolata attraverso un confronto complicatissimo tra le varie voci stipendiali vigenti nei principali paesi della zona euro, il tutto rapportato al PIL: e così hanno infilato il malcapitato Giovannini in un tale ginepraio, da costringerlo a dichiarare l’incapacità sua e dei commissari, per quanto tecnici esperti, a concludere il loro lavoro.

E del finanziamento pubblico dei partiti che ne è stato?

Sappiamo che il referendum popolare del 1993, con una maggioranza di oltre il 90%, abolì le legge che lo aveva istituito, ma piano piano il parlamento riprese a tessere la ragnatela dei sotterfugi legislativi e di fatto il finanziamento pubblico fu reintrodotto nella variante puramente linguistica dei “rimborsi elettorali” (si noti il perfetto stile gattopardesco nel cambio del nome), con l’aggravante che tali rimborsi sarebbero spettati per l’intero quinquennio della legislatura, anche qualora il parlamento fosse sciolto prima della scadenza naturale: norma aberrante, corretta solo nel 2006, che consentì anche a partiti e movimenti morti e sepolti di incassare milioni di euro.

Ora, nella dichiarata incapacità dell’attuale Parlamento di riformare la materia, il presidente Monti ha affidato a Giuliano Amato l’incarico di formulare al governo “analisi e orientamenti sul finanziamento ai partiti”: Amato è senz’altro un tecnico profondo conoscitore del tema, tanto più se si considera che fu sempre al governo, con ruoli diversi ma di primo piano, in occasione della progressiva reintroduzione del finanziamento ai partiti o dei rimborsi elettorali,  tuttavia, appunto per questo, è sembrato a molti poco credibile prima ancora che si mettesse all’opera.

Intanto l’avversione degli italiani verso i partiti cresce, ed a buon diritto, ma è anche presente nell’opinione pubblica la consapevolezza che essa può essere assai dannosa per il sistema democratico, perché la politica italiana, secondo l’art. 49 della Costituzione (“tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere in modo democratico a determinare la politica nazionale”), deve essere determinata dai partiti, che quindi sono indispensabili ed essenziali: possono essere cancellati tutti gli attuali, ma ne devono nascere necessariamente altri.

In effetti essi hanno cercato e tentano ancora di rifarsi vernice e nome, ma con risultati poco convincenti.

Così la gente continua a considerare i partiti dell’attuale Parlamento come entità lontane e quasi estranee ai reali problemi della società: percepisce i due partiti più importanti, seduti uno a sinistra e l’altro a destra, come i campioni della conservazione, vede al centro un partito che strizza l’occhio un po’ verso sinistra un po’ verso destra e due formazioni che vagano su orbite irregolari e populiste alla ricerca degli scontenti che non si riconoscono negli altri partiti o che si sentono tentati di aderire a chiassosi movimenti di apparente rottura.

Del resto, come può un elettore medio, che vorrebbe soltanto essere ben governato e che si occupa di politica solo in occasione delle elezioni, fidarsi dei partiti i cui notabili si danno un gran daffare a scavalcarsi tra loro per apparire più progressisti, oppure a rimettere in sella chi è stato disarcionato dall’Italia dopo averla a sua volta buttata giù da cavallo? Oppure credere in quei partiti che, promettendo riforme ed innovazioni senza posa, non sanno neppure togliere dal loro simbolo il nome del padre-padrone-fondatore? Oppure affidarsi a partiti che, dichiarandosi nemici totali del malaffare romano, ne hanno però ben appreso i meccanismi di funzionamento e li hanno adottati in chiave nostrana ma egualmente efficace?

Mentre l’economia nazionale è in grave affanno, le aziende chiudono, la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, non rallenta, le tasse nazionali e locali crescono sempre più e gli italiani si impoveriscono, tutti si attendono che gli organi dello Stato adottino un rigoroso piano di risparmi che tagli gli sprechi senza penalizzare i servizi; il governo ha annunciato una serie di interventi di riduzione della spesa pubblica, sotto il nome di spending review che, oltre a produrre consistenti risparmi, genererebbe nuova fiducia degli italiani nei confronti degli enti che li amministrano. Per il momento non si è molto al di là dei buoni propositi, però i giornali continuano a riportare notizie di malaffari, clientelismi e sprechi colossali: dalla Lombardia al Lazio alla Sicilia, gli esempi abbondano, per citare tre fra le più grandi regioni dal Nord al Sud.

Non è passato inosservato l’articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della sera del 21 agosto, che riguarda il Molise, la regione più piccola e meno popolosa, dopo la Valle d’Aosta: sui suoi 320mila abitanti grava un debito, in riferimento soltanto ai contratti derivati, di 300milioni di euro. Per fare chiarezza sull’argomento e soprattutto per evitare ulteriori aggravi, la giunta regionale, riferisce Rizzo, assunse a contratto con la qualifica e la retribuzione da dirigente, un esperto che vantava in materia altissime competenze (per inciso, ma non è una colpa, era genero di un ex presidente della regione), il quale, dopo analisi approfondite, ha suggerito ed ottenuto che la giunta affidasse ad un altro consulente esterno l’incarico retribuito di svolgere accurati accertamenti sui rischi dell’esposizione debitoria della regione: in poche parole, una regione non ha nessuno tra i suoi dipendenti che si intende di finanza, assume un  super-esperto per ovviare allo stupefacente inconveniente e, dietro suo suggerimento, nomina il consulente del consulente, il tutto a spese dei cittadini.

Alla piena ripresa delle attività economiche, in settembre i giornali continueranno a parlare  delle aziende che chiudono e delle Camere che riaprono dopo un mese di vacanze, che nessuno, tranne i diretti interessati, è disposto a riconoscere come meritate.
 
Intanto le prime avvisaglie della ripresa politica sono disarmanti: le pagine dei giornali sono piene delle risse dei partiti, grandi e piccoli, al loro interno e tra di loro: lo spauracchio delle prossime elezioni li mette in angoscia, perché sanno di partire perdenti e di arrivare sconfitti, tuttavia i leader, a sinistra ed a destra, concordano nel proclamare “Adesso tocca a noi”, alludendo impazienti alla rimozione del governo dei tecnici a favore di quello dei politici; solo al centro c’è chi vorrebbe un Monti-bis, forse più per la consapevolezza della propria insignificanza numerica che per sincera convinzione.

Credo che anche questa smania di riconquistare il potere disorienti ed allontani ancor di più gli italiani dalla politica, perché tanti si domandano: se è vero (come è vero) che molti decenni di mala-politica di sinistra e di destra con varie oscillazioni verso il centro hanno prodotto il disastro economico e sociale in cui versa l’Italia e la sua ridicolizzazione presso tutte le cancellerie internazionali, se è vero (come è vero) che Monti con il suo governo, pur con le legittime critiche e perplessità che ha sollevato, in pochi mesi ha dato al Paese una sterzata impressionante per intensità e per efficacia sul presente e soprattutto in proiezione futura e che può interloquire con tutti i leaders mondiali non più col cappello in mano ma almeno alla pari, se non da posizioni etiche e culturali addirittura superiori, è lecito domandarsi perché i capi dei nostri partiti non sappiano accettare l’ardita sfida di concordare tra loro un programma elettorale condiviso, col patto dichiarato di affidare ancora a Monti, una volta fatte le elezioni, il compito di guidare il nuovo governo, concedendogli carta bianca, piena ed assoluta, nella scelta dei ministri per l’esecuzione del programma concordato.

Gli elettori accetteranno più favorevolmente questa soluzione oppure il ritorno dei soliti più o meno noti?

In questi giorni si intrecciano tra i politici, a corto di idee e di proposte credibili, insulti brucianti, tra cui i meno triviali sono fascista e zombi: lasciamo perdere il primo, che fa inorridire solo a pensarlo, ma il secondo, svuotandolo del contenuto ingiurioso ma conservandone solo il significato letterale, è appropriato ed estensibile a buona parte dei protagonisti della nostra classe politica, inclusi ovviamente coloro che se lo scambiano con fervore: gli elettori preferiranno affidare l’Italia ad un Monti-bis o a degli zombi?

Mario Angeli
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