Giuseppe Maniscalco
Tuesday, 24th March 2015 

La lunga camminata del siciliano Giuseppe Maniscalco dall'Etiopia al Sud Africa durante la seconda guerra mondiale

Giuseppe Maniscalco

Giuseppe Maniscalco nacque a Palermo il primo di ottobre del 1910, uno di otto figli di una grande famiglia. Alla morte improvvisa del padre, la madre non era più in grado di crescere da sola i bambini e decise di lasciare Palermo per andare a vivere vicino ai suoi parenti e amici a Trapani. Poi diede il consenso a che i bambini fossero divisi e dati in adozione ad altri familiari e amici.

Giuseppe decise allora che gli sarebbe piaciuto andare a vivere con lo zio Rizzuto Noncencio, il quale aveva un'azienda agricola vicino a Casablanca, in Marocco. Lo zio commerciava in muli e cavalli, portando stalloni delle aree di Abda e Chianda del Marocco per migliorare la qualità dei cavalli siciliani. Tutto andò bene finché un giorno Giuseppe ebbe un'esperienza traumatizzante causata dal caposquadra, signor Poleo, il quale stava tentando senza successo di convogliare alcuni animali verso un recinto. Irritato, ordinò a Giuseppe di piazzarsi davanti al cancello principale, agitando le braccia, mentre lui li radunava dal di dietro. Gli animali si imbizzarrirono e partirono di corsa in direzione di Giuseppe, il quale si spaventò e a sua volta si mise a scappare. Si nascose fra i cespugli e fu poi soccorso da due arabi su cammelli che lo portarono al loro villaggio. Stette con loro una settimana, senza capire nulla di quel che dicevano.

Visto che nessuno dell'azienda dello zio aveva cercato di ritrovarlo, decise di scappare di nuovo e si diresse verso l'azienda del signor Pietro Mazzara, un altro siciliano che faceva il coltivatore in Marocco da tanti anni. La famiglia lo adottò e presto Giuseppe cominciò ad andare a scuola, imparando anche l'arabo e il francese. Dopo la Prima Guerra Mondiale gli affari di Pietro Mazzara crebbero attraverso l'esportazione di pelli di selvaggina verso gli Stati Uniti. Nel 1929 la tragedia: Pietro Mazzara rimase ucciso in un incidente ferroviario negli Stati Uniti. La moglie dovette vendere l'azienda per tornare con la figlia e Giuseppe in Sicilia. Qui il giovane fece i suoi 18 mesi di servizio militare e sposò Anna Mazzara. Sei mesi dopo la nascita del figlio arrivò la chiamata alle armi del Governo italiano, che dopo un intenso addestramento militare lo spedì in Eritrea. Dovette lasciare la famiglia e fu questa l'ultima volta che vedette l'Italia nei successivi 33 anni. Il suo desiderio di tornare in Africa si realizzava, ma non come aveva immaginato.

La guerra in Eritrea ed Etiopia finì presto con l'arrivo delle truppe sudafricane e inglesi che liberarono la zona. Giuseppe fu internato con altri soldati italiani del Sudan a Decamerè, a circa 40 chilometri da Asmara. Un maggiore inglese li informò che, se avessero voluto restare nel paese, avrebbero avuto 14 giorni di tempo per cercarsi un lavoro, altrimenti sarebbero rimasti prigionieri di guerra dell'esercito britannico. Salito su un camion, andò ad Asmara, dove si mise freneticamente a cercare un lavoro, ma invano. Stanco e sfiduciato, entrò nel Caffè Rialto in Viale Mussolini, dove incontrò un vecchio amico siciliano, Carlo Giacaloni, che non vedeva da molti anni. Dopo essersi scambiati i rispettivi ricordi, finalmente si misero a parlare di affari. Carlo aveva un camion Fiat in buone condizioni e Giuseppe gli propose di farne uso per commerciare in bestiame vivo con l'Etiopia, dove il mercato era aperto a tutti.

I primi tre viaggi andarono bene e i due cominciavano a vedere dei profitti, ma il quarto viaggio fu fatale. Un sergente australiano li aveva avvertiti di non entrare in Etiopia senza una scorta militare, ma loro decisero di ignorare l'avvertimento e di andare di nuovo per conto loro. Vicino alla sommità di una montagna, furono improvvisamente presi a fucilate da un gruppo di banditi (shifta) e Carlo fu ucciso sul colpo. Giuseppe saltò giù dal camion e corse a cercare riparo. La stessa cosa fecero due passeggeri sul cassone, che non rivide mai più. Dopo essere rimasto nascosto per gran parte della giornata, ritornò al camion e trovò il corpo di Carlo. A fatica lo estrasse dal veicolo e lo seppellì. Recuperò la propria valigia e le 300 sterline di profitto che avevano accumulato e con il suo cappello coloniale e il coltellaccio da caccia come unica protezione decise di mettersi in cammino verso il Sudan.

Non aveva alcuna intenzione di tornare in Italia, a causa dei suoi sentimenti monarchici, e non aveva nessun desiderio di essere chiuso fra i reticolati di un campo di prigionia britannico. Onde continuare il viaggio doveva evitare di attraversare zone controllare dagli inglesi. Prima di arrivare in Sudan fu fatto prigioniero dal crudele capo indigeno Oman, il quale lo accusava di aver ucciso il cane di uno della sua tribù. In effetti Giuseppe era stato attaccato dal cane ed era stato costretto a difendersi. Fortunatamente riuscì a diventare amico del maestro di Oman, uomo più anziano e più saggio, il quale poi fece in modo di farlo evadere e gli diede una scorta per indicargli la direzione verso la quale doveva continuare il viaggio.

Sul Nilo Bianco fu inseguito da un rinoceronte. Gettò tutto quello che aveva e si mise a correre. Vista una grande roccia davanti a sé, corse in quella direzione e deviò all'ultimo istante. Il rinoceronte, miope e lanciato a tutta velocità, colpì la roccia e stramazzò intontito.

Nel Congo, dopo aver tentato senza fortuna di entrare in Angola, incontrò un amichevole belga che gli vendette un fucile e delle munizioni. Fino a quel momento Giuseppe aveva usato soltanto il coltello e una lancia per procurarsi il cibo cacciando e pescando. Qui fu anche informato che le forze alleate stavano occupando la Francia. Nel Congo, con il suo clima umido e tropicale, si prese la malaria e fu curato dalle tribù locali con erbe e medicine naturali. Nel Katanga fu quasi catturato perché un farmer, facendo finta di averlo preso in simpatia, ne denunciò la presenza alla polizia locale. Giuseppe, non fidandosi istintivamente del coltivatore, aveva deciso di riprendere il viaggio prima del suo ritorno e vide da una collina vicina il farmer arrivare con la polizia. Il suo istinto aveva avuto ragione.

Entrato in Zambia (allora Rhodesia del Nord), divenne amico di un farmer che si chiamava De Wet, il quale gli disse che quel territorio era una colonia britannica, per cui decise di continuare a camminare verso il Mozambico il più in fretta possibile. Attraversò lo Zambesi su una canoa scavata in un tronco d'albero governata da indigeni e si diresse verso Beira. Un impiegato delle ferrovie, Michel, gli consigliò di andare a vedere un certo signor Mattinoti, farmer italiano che aveva già dato lavoro ad altri tre ex soldati italiani, che incontrò al suo arrivo all'azienda. Fu sorpreso di venire a sapere che si era nel 1946 e che la guerra era finita.

I tentativi di Mattinoti di dargli lavoro sfortunatamente non ebbero successo perché le autorità portoghesi del Mozambico avevano ricevuto severe istruzioni dal loro governo di non consentire ad alcun prigioniero di guerra di restare nel territorio. Esse informarono Giuseppe che avrebbe dovuto presentarsi all'ufficio immigrazione entro qualche giorno, appena chiamato, per esserse imbarcato su una nave e rispedito in Italia. Nel frattempo poteva restare in libertà ma sorvegliato da un poliziotto. Mentre si trovavano in un negozio, il poliziotto si mise a conversare con una giovane portoghese e Giuseppe, visto arrivare un autobus, decise di tentare la sorte e vi salì. Riuscì poi a tornare alla casa di Michel, dove la moglie Maria gli trovò un buon nascondiglio nella loro azienda agricola. Quando tornò dal lavoro, con una luce malandrina negli occhi, Michel disse a lui e alla moglie che sarebbero andati a vedere un film in città. Disse a Giuseppe di rasarsi la barba e gli diede un cambio di abiti. All'arrivo al cinema videro che c'era anche il poliziotto che avrebbe dovuto sorvegliarlo e ad un certo punto Giuseppe se lo trovò anche alle spalle, in conversazione con i suoi amici. Ma non fu riconosciuto.

Qualche tempo dopo accadde l'inevitabile e Giuseppe fu fermato da un comandante di zona portoghese che lo fece prigioniero. Dietro assicurazione che avrebbe lasciato il Mozambico entro tre giorni, gli fu permesso di continuare il suo viaggio. Ricordando quanto gli aveva detto un farmista sudafricano nella zona di Beira, il signor Strydom, del quale era diventato amico, Giuseppe decise che il Sud Africa sarebbe stato una destinazione più sicura.

Seguendo la rotta degli africani che aspiravano a diventare minatori e che si dirigevano verso il campo di un procacciatore di operai in Zimbabwe (allora Rhodesia del Sud), arrivò anche lui al punto di transito, dove incontrò un amichevole scozzese, il signor McMaster, il quale era disposto a offrirgli un lavoro dopo aver ascoltato il racconto del suo incredibile viaggio. Ma Giuseppe ormai aveva deciso di andare in Sud Africa e rifiutò l'offerta.

Nel vederlo attraversare il fiume Limpopo con i neri in cerca di lavoro, il funzionario sul lato sudafricano nel confine si mostrò sorpreso di vedere un uomo bianco in mezzo a loro. Di nuovo Giuseppe, come aveva già fatto tante volte prima, raccontò al funzionario il suo incredibile viaggio. Il funzionario gli promise un salvacondotto e un mezzo di trasporto fino a Louis Trichardt (cittadina sudafricana). All'arrivo a Punda Maria, villaggio molto prima di Louis Trichardt, l'autista si fermò davanti alla stazione di polizia. Erano stati informati dell'arrivo di Giuseppe e subito lo arrestarono. Fu poi trasferito a Sibasa e successivamente, attraverso Louis Trichardt, via trano,a Pretoria, dove erano convinti che fosse un evaso dal campo di prigionia militare italiano di Zonderwater. Nessuno credette alla sua storia, nemmeno gli ultimi prigionieri di guerra italiani ancora a Zonderwater. Lo chiamavano “Il Matto”. Fortunatamente per lui, fu interrogato da un funzionario del dipartimento dell'immigrazione che si chiamava Johannes (Jack) Van Der Spuy, il quale aveva trascorso qualche tempo in Italia durante la seconda guerra mondiale nello spionaggio dell'aviazione e quindi parlava bene l'italiano.

Come lui stesso poi raccontò, Jack, nel vedere Giuseppe, si ricordò dei prigionieri ebrei nel campo di Buchenwald. Il viso era orribilmente incavato e il corpo era soltanto pelle e ossa. Gli abiti pendevano dagli ultimi fili. Giuseppe era alto 1,82 e aveva mani immense. Guardandogli le scarpe, Jack si accorse che ne restava soltanto la parte superiore e che i piedi sanguinavano. Lo sguardo denunciava una tensione tremenda e somigliava un po' a un animale selvatico in cerca di qualcuno che si prendesse cura di lui, che comprendesse la sua situazione e che soprattutto gli credesse.

Siccome Giuseppe non aveva alcun documento di identità, il consolato italiano informò Jack di non aver alcun interesse a lui. Jack invece si era appassionato al suo caso. Era meravigliato della precisione con cui Giuseppe poteva lanciare il coltello e la lancia. Quando il coltello colpiva il tronco di un albero, ci voleva un grande sforzo per estrarlo. Un esame medico aveva dimostrato che Giuseppe presentava sintomi comuni alle persone che avevano attraversato aree tropicali e avevano preso la malaria. Una volta completato il suo rapporto, Jack e Giuseppe furono convocati nell'ufficio del suo superiore, il signor J. Basson. Nel vedere Giuseppe e nel sentire la sua storia, quest'ultimo si meravigliò e tirò fuori dalla tasca una banconota da una sterlina che diede a Jack con istruzioni di dare a Giuseppe un pasto decente e un taglio di capelli. Giuseppe fu poi trasferito in una farm fuori Pretoria perché potesse ristabilirsi.

Il Control Board capeggiato dal Segretario all'immigrazione di Pretoria decise all'unanimità di consentire a Giuseppe di restare in Sud Africa. Arrivarono al punto di trovargli un lavoro nel reparto carpenteria della gigantesca acciaieria Iscor, a Pretoria.

Intanto Giuseppe aveva scritto alla moglie Anna, in Italia, la quale circa tre anni prima era stata informata dalla Croce Rossa Internazionale che lui era morto nell'incidente del camion in Etiopia. Si era quindi rifatta una nuova vita e non aveva alcuna intenzione di raggiungerlo in Sud Africa. Giuseppe stesso cominciò quindi una nuova vita, ebbe il divorzio da Anna e successivamente sposò Maria Anjos, una signora di origini portoghesi che aveva già un figlio da un precedente matrimonio e che Giuseppe crebbe come se fosse suo. Insieme ebbero altri tre figli, due femmine e un maschio.

Ci vollero 33 anni prima che Giuseppe potesse tornare in Italia, dove rivide suo figlio, che aveva tenuto fra le braccia per l'ultima volta quando era un neonato prima di andare in Eritrea a fare il servizio militare.

Nel 1968 Giuseppe pubblicò in Sud Africa un libro sulla sua avventura intitolato “Miles and Miles and Miles” (Miglia e miglia e miglia), che fu poi ripubblicato in Inghilterra con il titolo “The Long Walk” (La lunga camminata).

Il sogno di Giuseppe era di poter rifare il suo incredibile viaggio, ma a causa di dolori al torace che lo tormentarono negli anni successivi, questo non gli fu possibile. Morì a Pretoria il 28 gennaio 1974, quasi esattamente 32 anni fa, scomparso ma non dimenticato: l'unico uomo riuscito a sopravvivere a questo lungo e avventuroso viaggio attraverso l'Africa a piedi, affrontando un ambiente ostile e i pericoli rappresentati da uomini e animali e superando ogni altro ostacolo sul suo cammino.

André Martinaglia

Traduzione di Ciro Migliore

Giuseppe Maniscalco's long walk from Ethiopia to South Africa

Born in Palermo on 1st October 1910, Giuseppe Maniscalco was one of a large family of 8 children. After the sudden death of his father, his mother was unable to support the children alone and therefore decided to leave Palermo and travelled to family and friends in Trapani. With the consent of Giuseppe's mother, the children were split up and were adopted by other friends and relatives.

Giuseppe decided he would like to live with his uncle, Rizzuto Noncencio, who had a farm near Casablanca, in Morocco. His uncle traded in mules and horses, introducing stallions from the Abda and Chianda areas of Morocco, to improve the strain of Sicilian horses. All went well with Giuseppe until one day he had a traumatising experience involving the foreman, Mr. Poleo, who was unsuccessfully herding some animals into an enclosure. Frustrated, he told Giuseppe to stand at the main gate, waving his arms while he herded them in from behind. The animals stampeded towards him and he took fright and ran away. He hid in the bush and was rescued by 2 Arabs on camels who took him to their village. He spent a week with them, not understanding anything they said.

As no one had come to try and find him from his uncle's farm, he decided to run away again and made his way to the farm of Mr Pietro Mazzara, a Sicilian who had been farming in Morocco for many years. This family adopted Giuseppe and soon he was attending a school where he also learnt French and Arabic. After World War I Pietro Mazzara's business expanded. He was exporting wildlife skins to the USA. In 1929, tragedy struck and Pietro Mazzara was killed in a train accident in the USA. His wife had to sell the farm and together with her daughters and Giuseppe they returned to Sicily. He did 18 months of military service and married Anna Mazzara. Six months after the birth of his son, the Italian Govemment issued orders for him to report for intensive military training and he was subsequently sent to Eritrea. His family was left behind. This was the last time Giuseppe was to see Italy for the next 33 years. His wish to return to Africa had been granted, but not in the way he had envisaged.

The war in Eritrea and Ethiopia was soon ended when the South Africans and the English liberated the area. He was interned with other Italian soldiers from the Sudan at Decamere, about 40 km from Asmara. They were informed by an English Major that, if they wished to stay in the country, they would be given 14 days to seek work or they would have to remain captives of the British military. Boarding a truck, he travelled to Asmara, where he frantically searched for work in vain. Tired and weary, he entered Caffé Rialto on Viale Mussolini. He met an old Sicilian friend, Carlo Giacaloni, whom he had not seen for many years. After reminiscing, they finally got down to talking business. Carlo had a very well maintained Fiat truck and Giuseppe suggested that they could use it to trade with livestock in Ethiopia where there was an open market.

The first three trips went well and they were already making some profit. On the fateful 4th trip, being told by an Australian Sergeant not to enter Ethiopia without a military escort, they decided to ignore his warning and go it alone. Near the top of a mountain, they were suddenly fired upon by a group of bandits (shifta) and Carlo was killed instantly. Giuseppe flung himself out of the passenger side of the vehicle and ran for cover. The two passengers at the back also
jumped off and were never seen again. After hiding for most of the day, he climbed down into the valley and found Carlo's body still in the vehicle. With great diffìculty, he pulled him out of the truck and buried him. He retrieved his suitcase and the 300 pounds they had made as profit and with his bush hat and large hunting knife as his only protection, he decided to start walking towards the Sudan.

He had no intention of returning to Italy because of his royalist leanings and had also no intention of being behind barbed wire in an internment camp at the pleasure of the British. To continue his journey ha had to avoid walking in British controlled areas. On his way into Sudan, ha was briefly held captive by the ruthless native chief Oman, who accused him of killing a dog belonging to one of his tribesmen. In fact, Giuseppe was attacked by the dog and was forced to defend himself. Fortunately, Giuseppe found a friend in Oman's tutor, an older and wiser man, who eventually arranged an escort to help him escape and to show him the way safely onwards.

On the White Nile he came across a rhinoceros who chased him. He dropped what he was
carrying and ran. Seeing a large boulder ahead, he ran directly for it. He swerved at the last minute and the rhinoceros, short sighted and at full speed, hit the rock and was knocked out.

In the Congo, after unsuccessfully trying to enter Angola, he met a friendly Belgian who sold him a rifle and ammunition. Up to this time, Giuseppe had been using a knife and a spear to hunt and fish for food. It was also here that he learnt that the Allied forces were occupying France. In the Congo, with its wet and hot tropical climate, he contracted the dreaded malaria disease and was nursed back to health by local tribesmen who used natural herbs and medicines. In Katanga he was almost arrested because a farmer, whilst pretendlng to be sympathetic, reported his presence to the local police. Giuseppe, instinctively mistrusting the farmer, decided to move on before his return. From a nearby hill, he saw the farmer and the police arriving. His instinct had been correct.

Entering Zambia (then Northern Rhodesia), he befriended a farmer called De Wet, who told him that this territory was a British colony and so he decided to walk towards Mozambique as quickly as possible. He crossed the Zambesi river in a log boat manned by tribesmen and headed for Beira. He was told by a railway clerk, Michel, that his best bet was to see a Mr. Mattinoti, an Italian farmer who had already employed 3 Italian ex soldiers on his farm. On arrival he met these three. He was surprised to hear that it was 1946 and the war had already ended.

Unsuccessfully Mr. Mattinoti tried to employ him, but the Mozambique authorities were under orders from their government not to allow any ex prisoner of war to remain in their territory. They informed Giuseppe that he was to report to the immigration office at a later date on notification, and would be put on board a ship and repatriated back to Italy. Unti! such time, he could remain free but under supervision of a police detective. Whilst in a shop, the detective picked up conversation with a young Portuguese woman, and Giuseppe, seeing a bus arriving outside, decided to take his chance, and boarded it. He eventually arrived at Michel's house and his wife Maria found him a suitable hiding place on the grounds of their farm. On Michel's return from work and with a mischievous twinkling in his eyes, he told Giuseppe and his wife that they were going to see a movie in the town. He told Giuseppe to shave off his beard and that he would give him a change of clothing. On arrival at the cinema, the police detective, who had been Giuseppe's escort, was also present and at one stage was at Giuseppe's back talking to his associates. Giuseppe was not recognised. Later, during this period, Giuseppe was eventually stopped by the Portuguese area Kommandant, who detained him. Giving the surety that he would leave Mozambique within 3 days, he was allowed to depart and continue his joumey.
Remembering the words of a South African farmer in the Beira area, Mr. Strydom, whom he had befriended, he decided that South Africa would be a safer destination.

He followed the route of African aspirant mine workers who were heading towards the camp of the labour consultant in Zimbabwe (then Southern Rhodesia). On arrival at the labour transit point, he met a friendly Scotsman, Mr. McMaster, who was prepared to offer him employment after hearing the story of his amazing travels thus far. Giuseppe had made up his mind to enter South Africa and therefore refused this proposal.

On crossing the Limpopo River with the black work seekers, the labour official on the South African side was surprised to see a white man walking amongst them. Giuseppe once again, as he had done many times before, told the official of his incredible journey. The official then promised him safe passage and transportation to Louis Trichardt (a South African town). On arrival at Punda Maria, a town much before Louis Trichardt, the driver stopped outside the police station. They had been notified of Giuseppe's arrival by the labour official and arrested him immediately. He was transferred to Sibasa and eventually through Louis Trichardt to Pretoria by rail. On arrival he was thought to be an escapee from Zonderwater Prisoner of War Camp. No one believed his story, including the Italian inmates at Zonderwater. They called him "Il Matto". Fortunately for Giuseppe, he was interviewed by an official of the department of immigration by the name of Johannes (Jack) Van Der Spuy, who had spent some time in ltaly during World War 2 as an airforce Intelligence officer and who spoke ltalian fluently. In his own words, Jack, when seeing Giuseppe, was reminded of the Jewish prisoners of war in the Buchenwald camp. His face was horribly sunken and his body was skin and bone. His clothes were hanging on their last threads. Giuseppe was 1.82 meters tall and had immense hands. Looking at his shoes, Jack noticed that only the upper part was left and his feet were bloody. The look in his eyes showed tremendous strain and he was somewhat like a wild animal looking for someone to care for him, to understand his predicament and mainly to believe him.

Because Giuseppe had no identification papers, the Italian Consulate informed Jack that they were not interested in him at all. Jack took a deep personal interest in his case. What also surprised him was the accuracy with which Giuseppe could throw a knife and spear. When his knife hit a tree trunk it required great strength to retrieve it. On the medicai examiners report, Giuseppe showed signs of one who had travelled in a tropical area and had contracted malaria. Once Jack's report was finalised, he and Giuseppe were summonsed to the office of his superior, Mr. J. Basson. On seeing Giuseppe and hearing his story, he was so amazed that he withdrew a one pound note out of his pocket and instructed Jack to see that Giuseppe be given a decent meal and a haircut. Giuseppe was then transferred to a farm outside Pretoria in order to recover more fully.

At the Control Board headed by tha Secretary of Immigration in Pretoria, it was decided unanimously that Giuseppe could stay in South Africa. They went so far as to find him employment in the carpentry section of the giant steel works, ISCOR, in Pretoria. Giuseppe had in the meantime written to his wife Anna in Italy, who had been notified nearly three years previously by the International Red Cross, that he had died in the truck accident in Ethiopia. She had therefore started a new life and had no intention of joining him in South Africa. He himself started a new life and was granted a divorce from Anna and subsequently married Maria Anjos, a lady of Portuguese descent who already had a son from a previous marriage. He raised her son as if he was his own and they together had another 3 children, 2 girls and a boy.

It took 33 years for Giuseppe to return to Italy and there he saw his son, whom he had last held in his arms as a small baby before he had gone to Eritrea to do his military service.
In 1968 his book was published in South Africa entitled "Miles and Miles and Miles" with a further publication in England with the title "The Long Walk".

Giuseppe's ambition was to do this incredible journey once more, but due to chest pains which plagued him later in life, this was not possible. He died in Pretoria on 28 January 1974, gone but not forgotten: the only man who lived to accomplish this long adventurous journey through Africa on foot, taking on the hazardous environment and the dangers from man and beast and dodging all other obstacles thrown in his way .
André Martinaglia

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