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Tuesday, 24th March 2015 

Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria ma ricordiamo quello che dobbiamo ricordare?

Questa è la storia di Violetta Maio, italiana di Rodi, classe 1911, di religione ebraica, deceduta a Città del Capo da un paio d’anni. Scampata all'inferno dei campi di sterminio tedeschi, ma condannata a vivere il resto dei suoi giorni con quell'inferno dentro di sé. L'intervista è stata raccolta nel 2006.

Si chiama Violetta Maio. Ha l’età che avrebbe mio padre se non fosse morto vent’anni fa. La struttura minuta, un po’ appesantita dall’età e dalle tribolazioni, i modi cortesi, il sorriso pronto, la mitezza trasparente di mia madre, che era di qualche anno più giovane. Parliamo in italiano, lei, Mimo Franco, amico suo e mio, mia moglie e io, nel suo salotto lindo dell’appartamento in un vecchio palazzo di Sea Point. Sui mobili e alle pareti fotografie, memorie di una famiglia già più che dimezzata nella “Shoah” e poi un po’ alla volta perduta per le vicende inevitabili di una lunga vita, di tante migrazioni, di tanti abbandoni, non sempre voluti.

“Vivo qui da sola da quasi trent’anni – dice la signora Violetta e nella voce non si coglie traccia di amarezza – con i miei ricordi. Gli stessi ricordi ogni notte, immancabilmente, da sessant’anni”. E si sente, si sa, che sono ricordi penosi e che per pudore non vorresti farle rivivere, ma lei è forte, di una forza che si alimenta della consapevolezza che nulla al mondo potrà mai superare l’orrore al quale lei è sopravvissuta.

E racconta. Racconta di crudeltà, di sofferenze, di muraglie lunghe chilometri e alte cinque metri di cadaveri lasciati all’aperto, di superstiti emaciati, più morti che vivi, tormentati da strati di pidocchi che rendono la pelle nera e che passano dai cadaveri ormai inutili ai vivi, se così si possono dire uomini e donne con un’ultima flebile fiammella di energia vitale. Ha la memoria di un moderno computer, pronta, precisa, senza incertezze. Elenca i nomi come se fossero quelli delle amiche e degli amici con cui ha preso il te soltanto un’ora prima. E invece sono nomi di compagni di viaggio di oltre sessant’anni fa, di un viaggio nell’orrore più disumano, di donne e uomini con i quali ha vissuto soltanto una piccola parte dei suoi 95 anni, con  alcuni soltanto pochi giorni o poche ore, ma in circostanze che le hanno lasciato nel cuore e nell’anima, prima ancora che nella memoria, solchi ben più profondi e indelebili di quei numeri che ancora si possono distinguere sull’avambraccio e dai quali distolgo lo sguardo perché mi ricordano troppo quelli sulle carni degli animali condotti al macello.

Ma lei non è un animale, no, lei è come se fosse mia madre, una donna dolce, mite, che intercala nel suo parlare invocazioni all’Onnipotente, che non impreca, che non ha perduto nulla della sua umanità. E allora ti soffermi a pensare, estraniandoti dalla conversazione, a questa sua, mia, nostra umanità, che dovrebbe essere la stessa, che è la stessa, di coloro che volevano distruggerla e non ci sono riusciti soltanto perché è mancato loro il tempo per farlo. E ti domandi se anche tu, essere umano, pensante, che adesso senti quasi un dolore fisico nell’ascoltare il racconto di quelle sofferenze, se anche tu, in condizioni diverse, avresti potuto rinnegare questa umanità di cui spesso ti vanti, se anche tu avresti potuto guardare un tuo simile, un altro essere umano, e desiderare soltanto la sua morte.

Ecco, io, quando sono andato a trovare Violetta Maio, qualche giorno fa, non ero sicuro di ricordare quello che dovremmo ricordare il 27 gennaio . Non perché non conoscessi gli eventi storici di cui tanto si parlerà nei discorsi ufficiali fra qualche giorno, non perché non avessi visto il film di Benigni o quello su Schindler. No, i fatti li avevo ben presenti, ma forse non avevo ancora capito, sicuramente non avevo capito che ricordare in questo caso significa mettere sé stessi dentro quei fatti, indossare quei panni, quelle divise e cercare di capire, più che di ricordare. Perché questa nostra umanità è allo stesso tempo salva in Dio e condannata in Satana. Perché non possiamo dirci umani davanti ai gesti nobili dell’umanità e chiamarci fuori dal gioco quando quella stessa umanità è crudele, perversa, disumana al punto da divenire satanica.

Ed è per questo che oggi, qui, da questa pagina, io chiedo perdono a Violetta Maio e a tutte le vittime umane e non umane della nostra stupenda e spaventosa umanità. Chiedo perdono perché non so e non posso dire se nelle stesse situazioni sarei stato un santo, o anche semplicemente un uomo, ma so che in altre circostanze, nella mia vita, non ho visto perché non ho voluto vedere, non ho agito perché agire avrebbe potuto danneggiarmi, non ho reso giustizia alla mia umanità. Ecco, questa è la mia Giornata della Memoria.

Com’era bello, come eravamo felici a Rodi

La storia di Violetta Maio si innesta nella storia di una comunità pacifica, di una vita normale, di un lento trascorrere di giorni, anni, secoli, circondati da un mare a volte amico e a volte minaccioso, da una natura ridente in un angolo del Mediterraneo dove nacquero e prosperarono diverse civiltà, dove diversi popoli si combatterono per secoli e tuttora si combattono per motivi che appaiono futili al cospetto della storia millenaria di quei luoghi ma che non mancano mai di suscitare passioni violente, odi irrazionali, guerre sanguinose, repressioni tremende.

Rodi era un luogo bello e tranquillo dove nascere, crescere, sposarsi, fare figli e lasciare serenamente al succedersi delle generazioni la crescita e lo sviluppo di una comunità fra le altre, laboriosa, ammirata, rispettata, pacifica. Ma non era stato sempre così e la lingua ancestrale della comunità di Violetta era legata al ricordo di altri tempi, di un altro luogo bello e tranquillo nel quale improvvisamente avevano attecchito l’intolleranza e l’odio, nel quale essere ebrei era diventato una colpa, una macchia che si poteva cancellare soltanto cancellando la vita stessa di coloro che ne erano portatori. Eppure gli ebrei vivevano in Spagna da quasi millecinquecento anni, erano con quelli di Roma i primi esuli della Palestina che andavano cercando nuove patrie nell’Impero Romano. Erano spagnoli, parlavano il romancio, erano i destinatari, anche se non direttamente citati, delle lettere di Paolo, ebreo anche lui come Pietro, come lo stesso Gesù, del quale in quelle lettere era diffuso il nuovo insegnamento. Non erano una specie aliena, erano esseri umani proprio come i cristiani e come i mussulmani che ai cristiani avevano conteso cavallerescamente per secoli il possesso della penisola iberica. Ma per loro nella Spagna della regina Isabella, che mandava le sue caravelle alla ricerca della strada per le indie, non vi era più posto. O cristiani o morti o esuli un’altra volta.

E così all’alba del secolo delle grandi scoperte geografiche, delle grandi avventure, delle nuove conquiste, gli ebrei di Spagna andavano nuovamente raminghi per il Mediterraneo, il Mare Nostrum nel quale non erano più accetti al mondo cristiano.
 
Trovarono rifugio e accoglienza fra i turchi e un luogo tranquillo, una nuova patria sull’isola di Rodi, dove vivevano in armonia turchi e greci, i quali nella loro diversità seppero accogliere altra gente diversa, fare spazio alla loro religione, alla loro cultura, alle loro tradizioni. E seguirono altri quattrocento anni di convivenza pacifica, quattro secoli nei quali dimenticare i torti subiti, nei quali recuperare fiducia nell’umanità. Poi i nuovi rigurgiti anti-semitici, le nuove persecuzioni, le nuove migrazioni forzate, le fughe nella notte, le marce dolorose, i primi ritorni in Palestina. Ma Rodi restava un luogo tranquillo, un piccolo universo lontano dalle vicende crudeli della vecchia Europa, in mezzo al mare. E poi la Grande Guerra e la nuova pace. Rodi cambiava padroni. L’Italia si sostituiva alla Turchia. Gli abitanti dell’isola dovettero scegliere se essere italiani o turchi e scelsero l’Italia, portatrice di una nuova civiltà, di valori così vicini a quelli ebraici da rendere facile l’illusione di poter essere assimilati, di poter finalmente essere diversi e uguali al tempo stesso. Un’illusione che dura trent’anni, tanti quanti Violetta Maio ne compie quando all’orizzonte sorge minacciosa, incomprensibile, disumana e disumanizzante la nuovola nera delle leggi razziali.

Duecentosettanta giorni all’inferno

Gli italiani non sono i tedeschi, il loro razzismo è un po’ annacquato, temperato dall’incapacità stessa del nostro popolo di essere disciplinato e di obbedire gli ordini senza discutere, quindi dai vizi che in qualche caso diventano virtù. Certo, gli italiani non sono duri come i loro alleati, ma ormai le leggi razziali sono promulgate, la pace di Rodi è finita, gli ebrei vivono per anni nel terrore di essere espulsi, molti di loro decidono di non attendere oltre l’inevitabile e partono su carrette del mare per la Palestina, altri lasciano tutto per andare a cercare un nuovo luogo tranquillo nelle colonie che promettono a tutti facili fortune, nel Congo belga e nella Rhodesia ancora lontana dal divenire Zimbabwe. Ma molti restano, incapaci di credere, nonostante tutto, che la cattiveria umana possa arrivare a sorpassare la ferocia istintiva delle belve. Restano mentre si esplorano tutte le vie per indurre Roma e i suoi governatori periferici a ritornare sui loro passi, a scoprire che quell’intolleranza, quelle crudeltà non sono parte del bagaglio di un popolo che sta mandando milioni dei suoi a cercare nuove patrie, a fondare nuove colonie, a mischiarsi con cento altre razze, a testimoniare in tutto il mondo che l’umanità è una sola.
 
Restano anche i Maio e pagheranno per questa loro fiducia incrollabile uno spaventoso tributo. Restano, dalla contabilità minuziosa di Hizkia M. Franco, presidente allora della comunità e testimone dolente della sua distruzione, in millesettecentoventisette (1727), quanti le autorità italiane lasciano in balìa dei soldati tedeschi che occupano le Isole del Dodecanneso e che trucidano anche migliaia di soldati italiani. Di questi soltanto 54 sfuggono alla deportazione, molti salvati dal console turco che li spaccia per suoi connazionali. Altri 100 sono sull’isola di Cos e soltanto 6 riescono a sottrarsi ai rastrellamenti.

Sono quindi 1767 i deportati, avviati come bestie verso la Germania agonizzante, marchiati come animali prima di essere uccisi. I più fortunati, 22, muoiono durante il viaggio, 1.145 nei campi di sterminio e 437 nei campi di lavoro.  Soltanto 163 sopravviveranno all’inferno per tornare fra i vivi a rendere testimonianza di quell’inimmaginabile calvario. Fra loro Violetta Maio e la sorella Sara. Non sopravvissero i genitori e il fratello Leon. La sorella Miriam morì qualche giorno dopo la liberazione da parte dei soldati inglesi, il 15 aprile 1945.

Duecentosettanta giorni all’inferno, da Auschwitz a Dachau e infine a Bergen Belsen, fra l’umanità dolente dei perseguitati e l’umanità tradita dei persecutori. Ma ci fu mai, in quei nove mesi, un gesto di compassione, una parola gentile, una fiammella d’amore cristiano? Sì, racconta Violetta, illuminandosi, felice di poter rendere testimonianza anche di quel piccolo residuo di un’umanità che aspira a essere immagine del Creatore. Ma sono episodi al principio e alla fine del calvario, che resta un tunnel del nero più profondo che ci sia, senza alcun barlume di luce. Due gesti generosi e due italiani.

Il primo a Rodi. Violetta, che era impiegata alla Singer e aveva sotto di lei più di cento operai, aveva fatto al proprietario di un rimorchiatore, un burbero genovese, Giuseppe Irera, il favore di scrivere una lettera. E lui le si era affezionato come a una figlia e da allora, ignorando le minacce delle leggi razziali, le aveva portato tutti i giorni due pani e due volte la settimana del pesce, abbastanza per allontanare lo spettro della fame. Lei lo ricorda ancora come si fossero visti soltanto ieri, ma era più di sessant’anni fa. Sono sicuro che ha bisogno di ricordare quel gesto come una prova della propria umanità, come testimonianza della solidarietà di un altro essere umano, per non dover credere di essere stata totalmente esclusa e rinnegata dal genere umano.

Il secondo ricordo è del giorno della liberazione. Fra i soldati inglesi un giovane si aggira per il campo di Bergen Belsen, fra cumuli di cadaveri, in mezzo all’umanità dolente e umiliata dei sopravvissuti, chiedendo: “Ci sono italiani fra voi?”. “Io, io sono italiana”, risponde Violetta. E infine, dopo il freddo distacco dei soldati britannici – quasi peggio dei tedeschi, ricorda Violetta -, un’ondata di calore, di compassione, di carità cristiana verso quelli che Papa Wojtiwa doveva soltanto recentemente chiamare “i nostri fratelli maggiori ebrei”. Si chiamava Enrico Marino e si prese cura di Violetta e Sara e con loro fece la dolorosa marcia di ritorno al mondo civile, all’Italia prostrata del dopoguerra che andava recuperando, pur fra ulteriori crudeltà, il proprio senso di umanità.  Una marcia fra le distruzioni dei bombardamenti, durata mesi, fra uomini che ancora si azzannavano come cani rabbiosi. Arrivarono a Roma l’otto settembre del 1945, il primo giorno del calendario ebraico, il primo giorno di una nuova vita, di una nuova Violetta, che da 61 anni ogni notte si addormenta, sola nel suo appartamento, con i ricordi di quell’altra vita, di quelle sofferenze e di quei due isolati ma immensi gesti d’amore.

I sopravvissuti di Rodi a Città del Capo

Da quel giorno del 1945 la vita di Violetta Maio rientra nei binari della normalità, per quanto può essere normale la vita di chi l’affronta con un bagaglio tanto doloroso. Dall’Italia alla Francia, due anni in ospedale a Marsiglia e infine nel 1949 la nuova emigrazione verso il Congo belga, l’arrivo a Elisabethville, dove nel 1951 incontra Nathan, che già l’aveva vista a scuola a Rodi e che era venuto apposta dalla Rhodesia perché gli avevano parlato di una giovane che sicuramente sarebbe stata una buona moglie. Si sposano nel ’51 e nel ’52 nasce Nicky e poi una bambina, la cui fragile vita a 18 mesi è stroncata da un vaccino avariato. Vivono insieme, finalmente sereni e felici, per 23 anni, fino alla morte di Nathan, nel 1974. Rimasta vedova, Violetta si trasferisce ancora, forse per l’ultima volta, a Città del Capo, dove a poco a poco si è ricostituita, è cresciuta e poi di nuovo diminuita la comunità degli ebrei italiani di Rodi. Oggi saranno forse 300. Gli altri sono sparsi per il mondo, dovunque li hanno portati le esigenze del vivere quotidiano e i timori della gente che non ha più radici perché le radici che aveva, o che credeva di avere, sono state recise troppe volte, con troppa crudeltà.

Nel Giorno della Memoria, fra tre giorni, sostiamo un momento per pensare a loro, per abbracciarli col pensiero, per sentirli fratelli nel Dio in cui tutti crediamo e che, ci dice oggi il nuovo Papa, è un dio d’amore, di pietà e di carità. Un unico Dio. Una sola umanità.

Ciro Migliore

The 27th of January is Remembrance Day but do we recall what it is we must remember?

This is the story of Violetta Maio, born 1911, Italian of Jewish heritage.

Violetta Maio would be my father’s age if he had not passed away 20 years ago, her minute frame burdened by age and tribulation. An ever-ready smile and courteous nature reminds me of my mother. My wife and I are sitting in her living room in an old apartment block in Sea Point conversing in Italian. Mimo Franco, a mutual friend, is part of the conversation. Photographs of relatives, some living others not, are everywhere, telling their own stories of a long life filled with every emotion possible, a full life worth remembering.

With no bitterness she states, “I have lived here alone for the last 30 years, alone with my memories that are invariably the same, night after night for the last 60 years.” The suffering is tangible but she is a very resilient woman, drawing strength from the knowledge that nothing in the world will ever surpass the horror of her past.

Her stories are of unimaginable cruelty, stories of suffering, of endless rows of corpses up to five metres high, emaciated survivors, living dead hanging on to the last flickering flames of life. Her recollection is sharp and sure as if she has recently had tea with these ghosts of her past and not memories from more than half a century ago. These are names and faces of a shared past, many of which were brief, a couple of days if not hours, a minuscule part of her 95 years yet so powerful that they still evoke the horror of our history. Memories so deeply grooved that they are just as visible as the numbers on her forearm, a sight I avert my eyes from as they remind me of branded cattle, something no human should be associated with, ever.

Violetta is no animal, she is just as my mother was, meek and mild, in her conversation she refers to the Omnipotent, a woman who still maintains her humanity intact. One begins to wonder about her, my, our humanity, something we should all share and yet one wonders because it is this same humanity that attempted to exterminate her and all her kind. Failing only because they ran out of time. How is it possible that sitting here listening to her I feel the physical pain of her life and yet ordinary people like me, like us could commit such atrocities? Is it not possible that under different circumstances I could do the same, we could do the same? Which of us can say no with clarity if we are part of this humanity we are so proud of?

When I went to see Violetta a couple of days ago I was not sure if I could recall what Remembrance Day was about. I had the facts, the history lesson of our past and seen the movies on the subject matter, that I could recall but I never understood. Remembering is no good without comprehension, one cannot fully remember if one does not try to wear the uniform and understand that we are all part of this humanity. A humanity blessed by God and damned by Satan, we cannot rejoice in the good and deny the cruel nature that is part of all of us.
Today I ask for forgiveness from Violetta, forgiveness from all humans and non-humans that have had to endure our splendid and diabolical humanity. Forgiveness for I cannot say that I would have been any different under different circumstances, forgiveness for in my life I have chosen not to see and not to act to situations that may have damaged me and by being blind I have done an injustice to my own humanity. This is my Day of Remembrance.

Happy times on Rhodes

Violletta’s story begins in a peaceful community, a normal life where days ran into each other and the passing of time imperceptible, surrounded by a sea that was kind at times and at others threatening but never malicious. In a corner of the Mediterranean that spawned many civilizations, where many battles were fought and still are, seemingly pointless conflicts that raise violent passion, irrational hatreds and bloody reprisals all in the name of misguided identity.

Rhodes was beautiful and tranquil, life complicated only by the search of a spouse and a place to raise your family to then move over and allow the new generation to further the community. Violetta’s ancestry is not that simple though, it arrived from elsewhere with a language and a history all too familiar. A history of spoiled splendour, persecuted in their own land for religion, where being jewish was stain that had to be removed. Convert or die and yet they had lived in Spain for almost 1500 years. They arrived with the Romans as the first exiles from Palestine, they were Spanish, they spoke the language of the Romans and were of the same religious practices of Peter and Paul, the same as Jesus himself whose teachings led the new order. They were not aliens but humans, equal to the christians and the muslims with whom they shared their lives but in Isabella’s Spain their time was up, convert, die or leave. Exiled again they navigated the Mediterranean for a new home as a sub species not acceptable to the christian world.

They found refuge amongst the turks, a new home on Rhodes living alongside greeks and turks who in their diversity could accept a new people and accommodate their beliefs and traditions. 400 years of peace followed, time to forget who had wronged them and regain faith in the human race and when the new anti-semitic rants began in mainland Europe, Rhodes remained isolated and largely unaffected.

Then came the great war, followed by the new peace bringing with it new owners of the island, the people choose to be part of Italy and with it a new culture that is so similar to the jewish one that for once optimism is possible. Finally the chance to be integrated, to be different, to be accepted and to belong, one people irrespective of religious and cultural differences. This illusion lasts for 30 years, the age of Violetta, when on the horizon the storm clouds of the new racial order gather. Inhumane, dehumanizing and incomprehensible racial legislation that will tarnish our humanity forever.

Two hundred and seventy days in hell

With the advent of the Second World War the racial laws passed by the German authorities are implemented by all their allies thus including Italy and the jewish community of Rhodes. While the Italians are not as severe as their counterparts and the anti semitism diluted, they are still part of this disgraceful past that allowed thousands to flee and millions to die. The jewish community on Rhodes lives in terror of being exiled and many leave of free will before they are forced, sailing on rust buckets across the sea back to Palestine. Others seek new lands and from  the Congo to Rhodesia new communities are formed but many remain, trusting in humanity not to descend to bestial behaviour. They will pay an enormous price for this faith.

All attempts to convince Rome and its rulers of the error in their ways are futile. Thanks to the leader of the island community, Hizkia M. Franco, who meticolously documented the fate of the 1727 members of his people, including the Maio family, we have come to know the consequences. Despite the pain it must have caused him, his records are invaluable to comprehend the scale of the horror that followed. The occupation leaves many Italian soldiers dead and the jewish community is no more. 54 manage to avoid deportation most of them saved by the turkish consul pretending they are his nationals, 100 are on the island of Cos of which only 6 manage to avoid the round ups bringing the total to 1767.

The deportees are taken to Germany, branded like cattle and treated worse. The fortunate die on the trip over, 22 of them, 1145 in the extermination camps, 437 in the hard labour camps. A mere 163 survive to recount the horrors of those 270 days, among them Violetta and her sister Sara. Their parents and brother Leon died, as well as their sister Miriam, who died a couple of days after the liberation, on the 15th of April 1945.

Auschwitz, Dachau and finally Bergen Belsen, a trip through Satan’s lair accompanied by an anguished humanity that has been betrayed by the leaders of the day. If there was ever the need for a gesture of compassion it would have been then and thankfully even in the darkest days there are glimpses of our potential. Beaming, Violetta tells of two incidents, which allowed her to believe in humanity, two flickering lights at both ends of an interminable tunnel. Two gestures, two Italians.

The first was right at the beginning on the island of Rhodes, where she worked for Singer in charge of more than 100 employees. She had written a letter for an illiterate trucker from Genoa. Having grown fond of her, like a father to a daughter, he brought her bread daily and fish weekly to alleviate the hunger, risking the wrath of the occupiers for subverting the racial legislation. She recalls this as if it was yesterday and not more than 60 years ago, hanging on the charitable gesture as proof of her own humanity, as proof that she did belong and was not sub human. A glimmer of hope in a pool of despair.

The positive side of humanity touched her again on the day of liberation. Amongst the English soldiers, searching through the rubble of human remains and the degraded and anguished survivors a voice, “Are there any Italians?” “I am Italian” responded Violetta and suddenly instead of the detached soldiers, a warm, caring Enrico Marino. Compassion for the survivors was more than the English could muster and the understanding of one man made all the difference. “Our elder brothers” are how Pope Wojtiwa described the Jewish people and it is with his new sisters, Violetta and Sara, that Enrico returned to Italy. Through the destruction of months of aerial bombardments, amongst people that still fought like demented dogs, to arrive in a country attempting to right itself from the disaster of the war. A country finding its feet and regaining the humanity it let go and hoping never to lose it again. 8th September 1945 they arrived in Rome, on the first day of the Jewish new year and a new life for Violetta, a life in which she has gone to sleep every night for the 61 years with memories of another life all of us would want to forget.

Survivors from Rhodes in Cape Town

From that day in 1945, Violetta’s life regained a normality that we all cherish, as much as that is possible with such a traumatic past. Two years in a hospital in Marseille followed by yet another immigration to the Congo. Arriving in Elizabethville she met Nathan in 1951, who had arrived from Rhodesia as he had been told of a young lady that would make a wonderful wife. Coincidentally he had seen her when she was at school on Rhodes, they married the same year and a year later had a child by the name of Nicky, followed by a daughter whose fragile life was ended prematurely by a defective vaccine. They finally led a serene life together until Nathan’s death 23 years later in 1974. Widowed, Violetta embarked on what is surely her last immigration, to the city of Cape Town where over time the Italian jewish community of Rhodes grew and then lessened to the 300 odd it is today. The remaining few are spread throughout the world wherever the necessities of every day living can be met, afraid to lay roots as the roots they believed they had were shattered with such cruelty and violence that forgetting is too much to ask.

On the Day of Remembrance let us pause and embrace them in our thoughts, regard them as brothers, irrespective of our religion, for are we not all of the same humanity and is my God and yours not the same? A God of piety and caring, trusting in our shared humanity to accept all and embrace diversity. One people, many Gods, one shared destiny, let it be a humane one.

Ciro Migliore freely translated by Francesco Migliore

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