Memorie di padre Maletto (1)
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- Created on Saturday, 31 March 2012 15:47
COLLANA UOMINI E MISSIONE 7 -
Un missionario piccolo piccolo
padre Lorenzo Maletto missionario della Consolata 1900-1980
P. Giuseppe Mina LM.C.
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA Via Arcoveggio, 80/740129 Bologna
Prima parte: Vent'anni in Kenya, fino all'internamento in Sud Africa
Uno che non morirà
Sono nato il 12 maggio 1900 a Sangano, Torino. I primi mesi, a quanto mi dissero in seguito i miei genitori, non erano stati facili: ero gracile e malaticcio, e mia madre, Giuseppina Paviolo, non aveva latte a sufficienza. Le era venuta in aiuto una vicina di casa che aveva perso in quei giorni un bimbo appena nato. Ho avuto cosi due nutrici. Quest'ultima negli ultimi anni della sua vita, quand'io tornavo dall'Africa, ripeteva a tutti, non senza un po' d'orgoglio, che lei era stata la mia seconda madre.
Mio padre, Giovanni, faceva il contadino, era gran lavoratore e uomo di buon senso. Mi voleva molto bene.
Non sono mai stato un bambino robusto. Ero gracilino e causa di preoccupazioni per i genitori, che facevano sovente venire il medico condotto a visitarmi. « Non morirà, state tranquilli », ripeteva il vecchio dottore. «Verrà più anziano di voi ». Ma intanto, in autunno e in primavera, non facevo che tossire.
Non ricordo a quale età ho cominciato ad andare a servir Messa. Una cosa, però, ricordo bene, ed èc he, molto tempo prima di essere in grado di trasportare il messale da un lato all'altro dell'altare, il parroco si doveva rassegnare a compiere da solo quest'operazione. D'inverno i chierichetti non erano sempre disponibili. Io, invece, ero sempre a "tiro", per il semplice fatto che mia madre, pur sapendo del mio gran sonno, veniva a svegliarmi per tempo. Anzi, prima ancora di svegliarmi del tutto, mi vestiva, mi metteva gli zoccoli, con uno straccio bagnato mi lavava la faccia, e poi: «Corri, corri, Lorenzino », mi diceva, « ché la campana per la Messa è suonata da tempo... ». E io, di corsa, percorrevo i 150 metri che mi separavano dalla chiesa, dove trovavo già il parroco pronto per recarsi all'altare.
Naturalmente qualche minuto dopo arrivava mia madre. Si inginocchiava sempre al medesimo posto, nel primo banco, per vedere se mi comportavo bene o se facevo il biricchino con gli altri chierichetti, che, specie nella bella stagione, si univano a me.
A dire il vero, non ero sempre irreprensibile. Più d'una volta accadeva che, essendo in due o tre inginocchiati ai piedi dell'altare, tirassimo le birille fuori di tasca, il più furtivamente possibile, per farle scorrere lungo i gradini. Ma, ahimè: a mia madre che era alle spalle, non sfuggiva quel movimento insolito. Giunto a casa, al posto del caffelatte con pane o polenta, mi porgeva un pezzo di pan duro, dicendo: «E tu lo sai il perché! ».
Ma, se io avevo i miei difetti, anche il mio parroco aveva i suoi. Anziano, buono ma un po' nervoso, una domenica mattina, durante la Messa delle otto, mi mollò un sonoro scapaccione soltanto perché alcune gocce d'acqua benedetta erano cadute dall'aspersorio sul fiocco della berretta. Colpito cosi all'improvviso, fui scaraventato verso lo spigolo della predella dell'altare. Mi alzai con un doloroso bernoccolo. Piangendo fuggii dall'altare e, attraverso coro e sacrestia, corsi a casa, giurando in cuor mio di non andare mai più a servir Messa. Mia madre, che dal primo banco aveva assistito alla scena, mi segui immediatamente. Questa volta non per rimproverarmi, ma per placare il mio cuore in tumulto. Anche il parroco venne nel pomeriggio per vedere se fosse stato possibile fare subito pace; ma io, appena lo scorsi da lontano, me la detti a gambe nei campi e non rincasai se non quando fui sicuro che se ne fosse già andato. Vinse, infine, la bontà di mia madre; con la sua forza suasiva mi indusse al perdono, e il vecchio parroco mi divenne amico per davvero.
Piccolo missionario
Come sono diventato sacerdote e missionario proprio non lo so.
Non ci avevo mai pensato.
Ero un ragazzo come tutti, e un po' sbadato.
Mio fratello Giuseppe, invece, più anziano di dieci anni, era molto più serio e riflessivo di me. Pronto a cogliere il vero significato della vita, era entrato nel seminario di Giaveno e, terminati gli studi ginnasiali, era poi passato tra i Missionari della Consolata. Uno zio materno, che lo aveva preso a benvolere, aveva ottenuto dal babbo il permesso di aiutarlo: avrebbe pagato lui la retta al nipote, cosa che mio padre aveva accettato ben volentieri. Noi si era molto poveri.
Anche mia sorella Maria aspirava a farsi missionaria, ma la morte ce la portò via prima che realizzasse il suo sogno. Soleva parlarmi di Dio e di quanto bene avrei potuto fare se mi fossi fatto missionario come il fratello Giuseppe. Le sue parole cadevano a tratti nel mio cervellino di ragazzo mentre ero fuori al pascolo o mentre ero con lei a rincalzare la meliga. Appassionata di letture, nelle lunghe sere d'inverno mi raccontava quanto aveva letto. Io ne godevo tanto. Maria era giunta in tal modo a farmi riflettere e a decidere per il mio avvenire: anch'io mi sarei fatto missionario.
Ne parlai a Giuseppe, che era già chierico. Ma egli mi rispose duramente! Gli sembrava che la mia non fosse una vera vocazione, ma semplicemente un vago desiderio di "andare con lui". Non mi sarei mai aspettato una simile reazione! La sorella Maria, però, vigilava su di me. Le confidavo le mie riflessioni ancora infantili, ma ella era convinta che "facevo sul serio". E ne parlò al babbo.
Grazie alla sua insistenza, il babbo si decise a comprarmi un paio di scarpe e un vestito decente, e un bel giorno di agosto del 1912, andai con lui a Torino, al Santuario della Consolata per incontrarvi il Rettore, il canonico Giuseppe Allamano. Egli, che aveva fondato l'Istituto Missioni Consolata, aveva accolto mio fratello Giuseppe: non avrebbe accolto anche me?... lo ero impacciato e mio padre ancor di più. Che cosa l'Allamano ci disse esattamente non ricordo, ma l'espressione di bontà di quel sacerdote, seduto sul suo seggiolone dietro la scrivania, che mi attirò a sé mettendomi una mano sulla spalla mentre con l'altra mi additava il quadro di don Giuseppe Cafasso (ora santo) che ci stava di fronte, non si cancellò mai più dalla mia mente.
Il problema del corredo richiesto e che mio padre non era in grado di fornire, venne risolto dal santo canonico: «Non fate spese », disse. «Lorenzo porti quello che può, al resto ci penso io».
Il 12 settembre 1912 entravo nell'Istituto, accolto da mio fratello Giuseppe, che non aveva voluto interessarsi della cosa, per accertarsi che la mia vocazione fosse autentica! Egli frequentava già il quarto anno di teologia.
Non ricordo molto del mio passaggio dalla vita dei campi a quella del piccolo Seminario San Paolo. Ero un contadinello e nulla più; forse buono di animo e un po' rozzo. Dovetti procurare dei fastidi a mio fratello; ma ciò lo compresi soltanto molti anni dopo, quando, dal Sud Africa, andai a fargli
visita a Nkubu, nel Kenya.
Allora mio fratello era ridotto all'immobilità su un lettino dell'ospedale. Una paralisi l'aveva privato della parola e di ogni movimento, dopo quarantadue anni di lavoro missionario. Con la mano destra a volte riusciva a scarabocchiare qualcosa. Si fece portare la tavoletta e scrisse alcune frasi che riuscii a decifrare.
Una, con mia grande sorpresa, mi riguardava direttamente. Diceva: «Tu forse, Lorenzo, non ti ricordi, ma, nel primo anno che eri all'Istituto, mi hai dato molti fastidi ».
Non poteva farmi una dichiarazione più evidente.
Ero alto un palmo, mingherlino, spesso malaticcio, vivacissimo, sempre pronto ai giochi più spericolati. Lo studio era il mio debole. Mi impegnavo molto, è vero, ma con scarso profitto. Padre Giovanni Chiomio, nostro assistente, non ebbe mai da richiamarmi in merito allo studio. Ero sempre promosso, anche se col minimo di sufficienza. Tuttavia solo in due siamo diventati sacerdoti e missionari: padre Emilio Oggè ed io. Gli altri, molti dei quali di brillante intelligenza, si persero lungo la strada! Io invece rimango a Torino. Ricevuto il Diaconato, giunge il tempo, come si usava allora, di tener la mia "prima predica". Mi preparo con molta cura, ricordo che avevo una gran fifa. Ma, superato il primo impatto, tutto fila via abbastanza bene di fronte alla comunità dei chierici.
Il piccolo successo e il Superiore mi incoraggiarono a ripetermi innanzi alla comunità delle suore. Nella cappella un folto gruppo di postulanti e novizie occupano i primi banchi. Con mal celata disinvoltura e gli occhi bassi per non perdere il coraggio dell'esordio, entro in presbiterio. La mia persona è accolta da un sommesso mormorio di risa che mi sconvolge profondamente. Recito la preghiera di introduzione, salgo la predella dell'altare e comincio la predica. Un profondo silenzio cade sull'uditorio e io, gli occhi fissi sul pavimento, riesco a declamare il mio solenne sermone.
Terminatolo, rientro in sacrestia senza riuscire a spiegarmi il perché di quella risatina dell'inizio. Con molta semplicità, la Superiora mi spiega tutto: nel vedersi improvvisamente innanzi quel "pretino", piccolo, minuto, con una faccia da bambino e, per di più, con la stola fuori posto (a tracolla, cioè, come la indossano i diaconi) le suore non erano riuscite a trattenere una risatina...
Sacerdote e Missionario
Malattie ricorrenti costellarono gli anni di studio della filosofia e della teologia. Padre Tommaso Gays, superiore della Casa Madre, mi mandava in famiglia durante i mesi invernali. Diceva: «Con i tuoi a casa, avrai le uova fresche, il latte appena munto e il tepore della stalla... ».
Me ne partivo allegramente, con il fagotto dei libri sottobraccio, e mi godevo la simpatica compagnia dei parenti, di mamma, di papà e delle sorelle. Penso ora con nostalgia a quegli anni in cui camminavo verso il sacerdozio in un modo del tutto privilegiato. Non avevo dubbi sulla mia vocazione, anche se il problema "salute" dava da pensare ai superiori. Questi, a un certo momento decisero di mandarmi in Africa a terminare gli studi. Era uso allora far "cambiar aria" ai più mingherlini inviandoli nelle salubri terre del Kenya.
Dovevo partire anch'io con padre Enrico Manfredi, e i chierici Luigi Massa, Bernardo Perino e Mario Nebbia. Essi, infatti, partirono... Padre Manfredi morì in Kenya ottantunenne senza più voler far ritorno in Italia. Padre Massa vive tutt'ora, mentre padre Perino moriva a Barico (Kenya) appena trentenne.
Il 26 giugno 1928 sono ordinato sacerdote, e la bontà del Signore mi riveste in tal modo di una dignità che colma all'infinito la mia "piccolezza".
Il Padre Fondatore non c'è più: è morto il 16 febbraio 1926. A novembre del 1928 mons. Filippo Perlo, che dirige l'Istituto, mi domanda se voglio partire per l'Africa. Mi sono proposto di "nulla chiedere e nulla rifiutare". Gli rispondo: «Ci vado volentieri se lei mi manda». Al che mons. Perlo soggiunge: «Sì, partirai! So che a te piace tanto la campagna. Ti mando a Nairobi, dove mio fratello, P. Luigi, ti dirà cosa devi fare. Preparati, partirai con gli altri ».
In realtà non c'è molto da preparare: un po' di biancheria, una talare nera e una bianca, un abito di tela kaki e qualche libro. Il tutto trova posto in una valigetta di cartone e in due involti di tela di sacco. Inizia così la mia avventura missionaria.
Quanto ne avrebbe goduto mia sorella Maria!
Ma lei era già partita per quella del cielo. La più bella.
Al Kenia
La funzione celebrata per la consegna del crocefisso è solennissima. La maggior parte dei partenti, ventiquattro tra Padri e Fratelli e Suore, è destinata per la nuova Missione in Somalia.
L'evento risente un po' dell'euforia di un'impresa coloniale. Mons. Perlo aveva pubblicizzato l'avvenimento con un fascicolo speciale in cui cam¬peggiavano le nostre fotografie
La popolazione accorre in massa al Santuario della Consolata. I nostri studenti del Piccolo Seminario distribuiscono volantini e si sgolano sulla piazza gridando: «Ventiquattro missionari per quattro soldi ». Tutto ha il sapore di una gioiosa e contenta ammirazione
Partiamo. L'8 dicembre, festa dell'Immacolata, celebro una Messa a Mogadiscio nei giardini del Governatore, Conte De Vecchi di Val Cismon. Lo stesso giorno, salutati i confratelli destinati alla Somalia, mi unisco al gruppo che prosegue per Mombasa
Durante il viaggio mi era venuta una gran vo¬glia di dimostrare che ero qualcuno: avevo accettato le prime sigarette! Poi ne avevo comprato un pacchetto, poi un altro ancora. Non mi accorgevo che, a poco a poco, cominciavo a legarmi alla catena del fumo che, poi, fu assai difficile rompere
Il viaggio è durato un mese.
A Mombasa siamo accolti dai Padri Bianchi. Circondati da ogni attenzione, rimaniamo loro ospiti per alcuni giorni. Il caldo è insopportabile: mi domando cosa potrò fare in Africa con tanto caldo. Ad accrescere la mia preoccupazione mi sono apparse, su tutto il corpo, macchie rosse seguite da prurito incontrollabile. Finalmente, dopo il terzo giorno di permanenza a Mombasa, si parte in treno alla volta di Nairobi. L'aria fresca della notte concilia il riposo e il sonno. Il mattino seguente mi accorgo che le macchie rosse vanno scompa¬rendo via via che cresce il fresco degli altipiani.
Tiro un sospiro di sollievo: il tutto era stato causato dall'eccessiva calura cui non ero abituato!
Alla fattoria di Manira
Mi bastano pochi giorni per rendermi conto che mons. Perlo ha lasciato precise direttive sul mio futuro "africano". Siccome sono di estrazione contadina, ha ordinato al fratello P. Luigi, che è un po' la sua lunga mano, di mandarmi alla fattoria di Manira.
Situata a una quindicina di chilometri da Nairobi è da tempo affidata ad un indiano, il sig. Ciotabai. Si vuole che la conduzione passi a un missionario, anche perché il sig. Ciotabai desidera rientrare in patria e sollecita il "cambio di guardia".
Se potessi dire ciò che sento, vorrei dire di non aspirare affatto a diventare un "farmer". Il mio sogno è l'apostolato diretto in qualche missione. Ma il proposito di "nulla chiedere e nulla rifiutare" rimane la mia direttiva d'azione e accetto di cooperare all'avvento del Regno, impegnandomi in una piantagione di caffè: qualcuno deve pur fare questo lavoro per procurare mezzi allo sviluppo delle Missioni e dell'Istituto.
P. Luigi mi conduce a Manira, mi presenta al sig. Ciotabai e mi dice chiaro e tondo che gli inizi saranno un po' duri, ma che tutto si risolverà per il meglio. Pochi giorni dopo vi manda anche P. Attilio Beltramino, futuro vescovo d'Iringa (Tanzania). Questi con Fr. Giacomo Campagnola, getta in breve tempo le fondamenta in cemento per due camere: la mia "reggia", e poi abbozza una cappella: la reggia del Signore. Per cucina, una capanna, e per cuoco un ragazzetto di forse otto anni.
Do mano all'orto che provvede ben presto cavoli, fagioli, insalata, zucchini, pomodori. Il pane? Lo compro una volta alla settimana, il sabato, quando mi reco a Nairobi in bicicletta per assistere alle funzioni domenicali nella chiesa pubblica della nostra Casa Procura. La carne? Comincio, con tre galline e un gallo, un minuscolo pollaio. Le galline sono industriose e si procurano il cibo nella piantagione di caffè dove i bruchi non mancano! Tutto si avvia abbastanza bene; divento anche un buon cuoco, prima di diventare un buon "manager". Polli, uova e insalata coi fiocchi. Il ragazzo di fiducia è molto educato e lavora bene. Quando lo vedo indaffarato in casa, mi rivedo ragazzo come lui, nella casa di mio padre al Sangone... Tempi lontani!
Centocinquanta ettari di piantagione di caffè, terre per la pastorizia, un centinaio di africani di diverse tribù assoldati per i lavori: è un piccolo mondo che non lascia tempo o spazio a sogni o avventure. Devo imparare al più presto come si conduce una fattoria. Mi ci vogliono due anni. Poi, il sig. Ciotabai se ne torna in India e io rimango solo. Il mio apprendistato ora termina, come dichiara P. Luigi. lo non ne sono persuaso! Ce l'avrei fatta? Ho solo 27 anni, e sono solo, pieno di buona volontà, ma senza un compagno nel lavoro e nella responsabilità mi sento perduto.
I Superiori allora mi vengono in aiuto inviandomi Fr. Domenico Ambrosio: quindici anni più anziano di me, buon lavoratore, contadino di professione e dotato di un fisico robusto, sembra l'uomo della Provvidenza! Tuttavia, l'appoggio di cui ho bisogno non sono due braccia in più nella fattoria, ma una persona che sappia organizzare il lavoro, dirigere e sorvegliare le diverse squadre di operai. Queste doti, fratel Domenico proprio non le possiede, e devo pensarci io. Il Fratello tuttavia mi è preziosissimo. Attende alle faccende di casa, mi tiene compagnia, bada alla cucina e all'orto e inizia un frutteto. E questo mi è molto utile. Sono stanco di mangiar banane tre volte al giorno. Capisco come gli ebrei nel deserto abbiano potuto mormorare contro Jahwé che provvedeva solo manna, a bocche fatte per cipolle...
Incidente
Il fatto mi riempie di scrupoli e di tristezza per non aver saputo frenare con maggior energia la voglia di correre del Fratello. E' una lunga storia di dolore vissuta in solitudine
I familiari di fratel Domenico stanno finanziariamente bene e lo riforniscono di denaro. Egli domanda il permesso di comprarsi una motocicletta per girare nella fattoria e per incontrare la domenica i confratelli a Nairobi
Conoscendo le sue non troppo pronte capacità di riflessi sono sempre in pensiero per lui quand'è in viaggio. Fin che gira per le stradine della fattoria non vi sono soverchi pericoli, ma quando punta su Nairobi..
Una domenica, come di consueto, parte verso le 9 portando sul sellino un giovane di nome Rossati, un italiano in Kenya in cerca di lavoro. Poco fuori dalla fattoria, la strada è tutta una curva. Fratel Domenico, sbagliando il senso di marcia, va a sbattere violentemente contro una macchina che gli compare innanzi all'improvviso. Lo scontro frontale è terribile
Quella domenica m'ero fermato a casa non ricordo più per qual motivo. Un messaggio: «Fratel Domenico è ricoverato all'ospedale di Nairobi. Incidente. Rossati è salvo». Mi precipito a Nairobi. Qui trovo il Fratello in coma. Ha il cranio sfondato e fratture multiple alle gambe e alle braccia. Accanto vi sono i confratelli della Casa Procura, con la premurosa suor Michelina. Si organizzano i turni per l'assistenza continua. I diversi medici e specialisti fanno del loro meglio.
Io, certo, posso fare ben poco. Quando la domenica mi reco da lui, lo trovo avvolto in una montagna di bende; mi si stringe il cuore. Il coma è irreversibile. Il fratello muore l'8 settembre 1932. Ha 47 anni.
Il ribelle
Un mattino, come di consueto, inizio il mio giro di ispezione. Passo dai ragazzetti intenti a controllare il vischio acchiappa formiche, che insidiano le piante, ai potatori. Tutto bene! Proseguo verso la squadra dei sarchiatori: una trentina in tutto, ognuno alle prese con la sua "fila" di caffè. Il terreno è asciutto: ideale per un buon lavoro non troppo faticoso per i lavoratori. Passo in rassegna le file: bene. A un certo punto noto un operaio molto avanti nel sarchiare la propria fila. L'osservo. Si limita a dare colpi qua e là, coprendo, con la terra smossa, erbe non toccate, che in due giorni avrebbero rialzato il capo e... addio caffè.
Lo rimprovero ad alta voce.
Egli si volta a guardarmi da lontano, poi, lentamente, trascinandosi dietro la zappa, viene verso di me. A tre metri si ferma, mi guarda torvo e improvvisamente alza la zappa e la fa roteare sul capo, dopo essersi avvicinato fulmineo. D'un balzo lo scanso. Poi, senza profferire parola, l'uomo torna al suo posto e riprende a sarchiare. Il sangue mi pulsa forte alle tempia. Il caposquadra, che ha visto il gesto insano, m'interroga con lo sguardo sul da farsi. «Rimandalo al villaggio!», grido impaurito. Il sarchiatore si rialza sulla schiena e si allontana con irritante indifferenza.
Il mattino seguente riprendo il giro di sorveglianza e, giunto al gruppo dei sarchiatori, non vedo il mio uomo... M'informo presso chi gli è vicino di capanna: non l'aveva visto. Mando il capo-squadra a cercarlo. Dopo non più di dieci minuti torna trafelato e grida: «E' morto, è morto!».
Corro alla capanna, entro e lo trovo disteso, immobile e già freddo sul suo giaciglio. Sembrava dormire ancora.
La mia gente un po' superstiziosa conclude dicendo: «Ieri ha minacciato il Padre e Dio l'ha punito». Passarono degli anni, ma chi veniva assunto in fattoria era subito messo al corrente: «Chi tocca il Padre, muore! ».
Karanja
I lavori nella piantagione si succedono a ritmo di stagione. Sarchiatura, potatura, raccolta del caffè, impegnano molta manodopera. La potatura poi è un lavoro che richiede particolare abilità e vi riescono bene i Kikuyu. Karanja è uno di quelli. Abile potatore, non manco mai di assoldarlo per i mesi di gennaio e febbraio. A marzo il caffè è già in fiore e tutto deve essere in ordine.
In quell'anno mi trovavo a corto di operai e Karanja non si è ancora fatto vivo. Ha messo su famiglia e deve pur avere bisogno di denaro per pagare le tasse per sé e per gli anziani genitori a carico! Infine compare e mi dice subito che sarebbe venuto se gli concedevo un ingaggio a cottimo con pagamento anticipato; aveva impegni a casa e voleva sbrigarsi presto. «Tu sai, Padre, che so potare bene. Fidati di me».
Ero solito dare a cottimo il lavoro di potatura ai più abili, ma ciò che non mi garbava era la richiesta di un pagamento anticipato. Tuttavia, il bisogno mi spinge a far buon viso a cattivo gioco e anticipo il denaro. «Padre, grazie », mi dice Karanja contento. « Lunedì sarò da te! ». Passano il lunedì e l'intera settimana, ma Karanja non si fa vivo. Mando per un sollecito.
«Dite al Padre che ho da fare, ma verrò lunedì... », è la risposta.
La storia dei "lunedì" mi mette in sospetto e prego il capo Warohjo, da cui dipende, di prender atto di quanto sta succedendo. Il capo, mio amico, manda subito un ascaro a intimare l'immediato inizio del lavoro! Niente da fare. Il capo perde le staffe prima di me e manda quattro ascari a prelevare tutte le capre di Karanja. Gliele avrebbe ridate a lavoro compiuto! Per un kikuyu non poteva esservi monito più grave e umiliante. E Karanja decide di vendicarsi.
Me lo vedo comparire innanzi con una coperta buttata a tracolla sulla spalla sinistra lasciando la destra scoperta. Mi fissa con occhio torvo e mi domanda perché l'ho denunciato al capo. Gli domando a mia volta perché non è venuto al lavoro dopo averne recepito la paga in anticipo. Il cuore mi batte forte mentre osservo Karanja avvicinarsi sempre di più a me. Alto, giovane, sta per scatenarsi. Lo prevengo con un balzo afferrandogli la destra, mentre Boby, il mio fido cane da guardia che aveva osservato la mossa, gli attanaglia il calcagno del piede sinistro. Karanja emette un urlo e lascia cadere a terra uno stiletto nascosto con cui voleva colpirmi. Lo raccolgo subito, lo porto a casa e torno sul luogo ove Boby continua a stringere con i denti acuminati il calcagno di Karanja che urla da far pietà! Lo libero a viva forza dalle fauci di Boby. Gli pratico una prima fasciatura mentre il mal capitato mugola pentito: «Padre, perdonami, perdonami». Lo faccio salire sul camioncino e lo porto di corsa all'ospedale di Kyambu per un'accurata medicazione antitetanica. Segnalo il fatto alla Polizia perché Karanja poteva denunziarmi d'avergli aizzato contro il cane. Non c'era stato che un testimone: Boby, ma era un cane.
Dimesso dall'ospedale, il Commissario di Polizia esamina il caso e infligge due mesi di prigione a Karanja con l'obbligo di presentarsi in fattoria per eseguire il lavoro o di restituire il denaro. Karanja scelse quest'ultima soluzione. Poi non l'ho più rivisto.
Il capo Warohjo è venuto a trovarmi e mi ha detto: «Padre, te lo dico come amico: non anticipare mai denaro se non vuoi farti dei nemici».
Debolezza umana! Tutto il mondo è paese!
Il lunedì mi rimaneva ancora un po' della fatica del ministero pastorale. Infatti, il sabato sera ero a Nairobi e attendevo alle confessioni e mi consolava il poter amministare il sacramento valendomi dell'inglese, del kikuyu e del luo. Lo stesso avveniva alla domenica, cui si aggiungevano la Messa, la predica e altre attività ricreative e assistenziali nell'ambito parrocchiale. Alla sera tornavo a casa stanco ma contento pedalando sulla mia bicicletta.
Ma quando a P. Beltramino, che lavorava pure nella fattoria, fu concessa una moto, io perdo la pace: “Perché a lui sì e a me no?”. Non mi accorgo che l'invidia mi rode dentro. Alla Casa Procura si accorgono del mio malanimo e un sabato sera mi fanno trovare una grossa "Douglas" nel medesimo posto ove ero solito riporre la bicicletta. Era una moto di seconda o di terza mano, lo si vedeva ad occhio nudo... Ma è pur una moto! Ne rimango come estasiato, non accorgendomi che padre Giovanni Borello mi osserva divertito.
« Le piacerebbe questa quattro cavalli? ».
« Padre John, è un po' alta per me che sono piccolo, ma deve essere forte come un toro, questa moto!... Per me? ». Egli riprende: «Sì, è per lei. Non è nuova ma è più forte di quella di P. Beltramino. Basta con la bicicletta! Vuole sfiancarsi? ».
Fa scivolare dal cavalletto la moto, si mette in sella e incomincia a... dare calci. Ma l'accensione non avviene e un certo dispetto incomincia a impossessarsi di P. John. « Incominciamo bene », vado pensando fra me. Dopo buoni cinque minuti di inutili sforzi, scende di sella e, sudato, tocca in una dozzina di punti la "Douglas" recalcitrante. «Ecco, ora parte », dice, e, presa la rincorsa, ci salta sopra alla bersagliera. Comincia a girare nei viali e nel grande cortile, finché viene a fermarsi, con il motore acceso, innanzi a me.
« Provi, vedrà! ». Salto in sella mentre P. John mi urla dietro qualche istruzione, e... via col vento! Giro nel cortile e nei viali finché sono sicuro di conoscere i diversi movimenti. Fu poi a Manira che imparai a spingere la moto e a saltarvi sopra "alla bersagliera". Non sono mai riuscito a farla partire da fermo. P. Bartolomeo Durando, saputa la mia promozione a centauro, mi invita alla sua missione di Rocio per una festa di battesimi. Da quando ero in Africa non avevo ancora avuto la soddisfazione di battezzare neppure un moribondo... Non mi lascio sfuggire l'occasione.
Costole rotte
Il sabato sera percorro in volata i 50 chilometri che mi separano dalla Missione, dove vengo accolto con entusiasmo dal Padre. La domenica, mentre verso l'acqua battesimale sul capo di una ventina di neofiti adulti, penso: «E' poco giusto raccogliere dove altri han seminato... ». Erano i miei soliti, brutti pensieri, che affioravano anche in quel momento. Mi era difficile lavorare alla fattoria con litigi e contrasti senza fine, senza alcuna soddisfazione spirituale! Eppure, anche quella bella festa portò alla conclusione: «Fare la volontà di Dio, cooperando indirettamente all'apostolato, non doveva forse bastarmi? O forse io ero meno missionario alla fattoria di quanto P. Durando lo fosse a Rocio? ».
Dopo i vespri saluto il confratello ringraziandolo per la gioia procuratami. Salito in sella ricevo una forte spinta e, via! «Non troppo veloce, però» mi vado ripetendo. La strada è polverosa e piena di buche. Non devo lasciarmi vincere dalla ebbrezza della velocità! Attraversato il fiume Thika, la strada si apre in un bel rettilineo invitandomi "all'andante mosso...". Accelero, ma quella gioia dura un istante. All'improvviso, in una cunetta la ruota anteriore s'arresta in una buca e io mi trovo scaraventato bocconi a terra, tutto impolverato e con un forte dolore al torace. Attorno, nessuno. La moto continua a sbuffare, rovesciata su un lato... Tornare a Manira? E cosa avrei fatto là da solo, con quel male? Decido un rientro alla Casa Procura. Con uno sforzo enorme, riesco a rimettere in piedi la moto, la cavalco e innesto la marcia. Rimane per me un mistero come abbia potuto raggiungere la Casa Procura attraversando parte di Nairobi, né ricordo cosa avvenne dopo... Mi sveglio a tarda notte in un lettino dell'ospedale, fasciato strettamente. Ho vicino a me P. John, che sorridendo in modo bonario, sembra dirmi: «E' contento ora della sua moto? ».
Me l'ero cavata con tre costole rotte e la proibizione, per un mese, di compiere qualsiasi movimento. L'indomani vengo dimesso e portato alla Casa Procura. Trascorro alcuni giorni di riposo, poi P. Luigi mi dice: « Vorrebbe recarsi a lavorare nell'ufficio del Console d'Italia? ». Mi spiega che il Console, nostro amico, deve assentarsi per alcuni giorni per una battuta di caccia grossa e desidera una persona di fiducia nel suo ufficio. Così l'indomani, fasciato come una mummia, percorro faticosamente un chilometro di strada e mi trovo di fronte al Console, che bonariamente mi dice: «Preghi che non ritorni malconcio come è tornato lei dal suo safari apostolico... ».
Catechismo
La fattoria di Manira si trova sul territorio dell'immensa parrocchia di Thika, retta dai Padri dello Spirito Santo. A quattro chilometri dalla fattoria sorge la scuola-cappella di Rioki, visitata due, tre volte all'anno da P. Blais, un francese. E' un sacerdote molto zelante. Fin dal 1928 è stato ben lieto che gli dessi una mano a catechizzare i nostri operai Luo, molto interessati all'annuncio evangelico.
Dopo il lavoro, a sera, tengo lezioni di catechismo in una capanna più grande. Ciò mi serve oltretutto come esercizio della lingua luo che ho imparato abbastanza bene. Secondo il metodo corrente si ripetono all'infinito le domande a cui i catecumeni rispondono in coro. Un catechista completa via via l'istruzione religiosa. Poi viene P. Blais. E' molto rigoroso e non ammette al battesimo se non i più preparati, sia sotto l'aspetto della istruzione religiosa sia sotto quello della pratica cristiana
Son divenuto amico di P. Blais e gli sono a tutt'oggi riconoscente perché ha saputo comprendere che, per me, insegnare il catechismo era una gioia e un sollievo capaci di rendermi ancor più generoso nel mio lavoro alla fattoria!
Esperto
Non ho mai preteso d'essere un esperto nella coltivazione del caffè, ma non nego che ho sempre fatto il possibile per conoscere veramente a fondo tutti i misteri e le attenzioni che questa pianta richiede perché possa offrire un prodotto abbondante e qualificato.
La fattoria di Manira gode buona fama e P. Giuseppe Gallea, l'economo generale, dopo una visita alla fattoria di Lupembe (Tanzania), notandone lo scarso rendimento, decide d'inviarmi colà per fare un sopralluogo e darvi il mio parere e i miei consigli. L'invito mi giunge gradito e parto lasciando Manira in mani sicure.
Raggiunta Mombasa e imbarcatomi, tocco Zanzibar il mattino seguente. Avendo un po' di tempo, visito la Missione Cattolica, la più antica dell'Africa Orientale, retta dai Padri dello Spirito Santo. Essi mi accolgono con molta fraternità e mi offrono una bevanda al tamarindo per dissetarmi. Mi accompagnano a visitare la cattedrale, imponente, e le diverse opere cattoliche. I locali hanno soffitti altissimi: unico modo, mi si spiega, per ottenere una ventilazione sufficiente.
A pranzo i padri mi invitano nel vasto refettorio. Noto un ventaglio di circa due metri di diametro pendente dalla volta a mo' di girandola, fatto di penne di struzzo. Dopo la benedizione della mensa, appena seduto, mi sento investito da una riposante frescura. Alzo gli occhi al grande ventilabro che si muove a ritmo costante. Veramente, non si manca d'inventiva!
Nel pomeriggio in traghetto raggiungo Dar-esSalam. Prendo il treno per Dodoma e viaggio l'in-tera notte. Al mio arrivo, meravigliato, vedo fratel Felice Crespi ad attendermi! Da quando ci eravamo lasciati a Torino non ci eravamo più incontrati e ora è venuto con il camion a prelevarmi. Con lui c'è una suora missionaria venuta a Dodoma per acquisti.
Il camion è carico di attrezzi da lavoro, sacchi di riso, numerose casse di varia forma e colore. Fratel Crespi, che dopo i primi saluti si era dimostrato impaziente di partire, ora non ha più alcuna fretta. Gli domando se c'è altro da sistemare.
«Vede », mi risponde con qualche perplessità « siamo in tre e in cabina c'è posto soltanto per due: la suora e io. Avrei preparato per lei un posticino lassù, tra le casse. Se non le spiace... ».
Spiacermi? Nient'affatto. Siamo missionari e non si va molto per il sottile in simili frangenti. Mi arrampico come uno scoiattolo sul mio posto di vedetta e partiamo. Dodoma era allora un minuscolo centro e in pochi minuti ci troviamo fuori dall'abitato, quasi in pieno deserto. Dal mio posto d'osservazione non vedo che un'immensa pianura riarsa e piccole mandrie dimagrite alla ricerca di ciuffi d'erba. Alcuni pastori, che camminavano sul ciglio della strada, vedendoci comparire depon¬gono a terra le lance e gli archi, e ci salutano festosi con le braccia. Alla prima fermata non posso trattenermi dal domandare perché la gente depone le armi a terra. Fratel Crespi mi spiega: «Durante il dominio tedesco vigeva nel Paese una disciplina ferrea. Davanti a qualsiasi bianco che passava, gli Africani dovevano subito posare le armi a terra, pena la fustigazione. Il governo inglese oggi non lo esige più ma è tanta l'abitudine che i più continuano a farlo anche con noi».
...La corsa riprende, mentre io penso agli Africani, che, a casa loro, depongono le armi al passaggio dell'uomo bianco. E trovo che la cosa è assurda.
Verso la mezzanotte giungiamo a Tosamaganga ove si trova la sede centrale della Prefettura d'Iringa. Siamo accolti da missionari premurosi e cordiali. Non riesco a mangiare: mi sento talmente stremato dopo quella traballante corsa nella notte, da non desiderare altro che un letto. Mi viene assegnata una stanzuccia pulita con un letto dalle lenzuola di bucato.
Sul tavolino da notte arde una lampada a petro¬lio e accanto vi è una bottiglia. Sento una gran sete, dopo quella lunga giornata all'aria! Cerco a destra e a sinistra un bicchiere, ma non lo trovo. Pazienza! Allora sollevo sopra la bocca, con gesto contadinesco, la bottiglia piena fino all'orlo e verso. Alcune gocce mi cadono sulle labbra, emanando un caratteristico odore: non è acqua potabile, ma petrolio per la lampada!
L'amara delusione si stempera nel sonno, reso dolce dalle nitide lenzuola profumate di bucato e da una buona coperta.
E' fresca la notte, a Tosamaganga.
Dopo una giornata di riposo fratel Crespi in poche ore mi porta a Lupembe. Qui i Padri Basso e Becchio mi fanno gran festa, accogliendomi come l'atteso "salvatore" delle loro piantagioni.
Sorbendo una tazzina di caffè, comincio a infor¬marmi come stiano veramente le cose. Essi, più che diffondersi in spiegazioni, preferiscono portarmi subito a visitare la fattoria
Le piante, anche se non giovani, sono robuste e ben formate. Ma un fatto mi colpisce immediata-mente: a Manira, i rami tendono ad espandersi prepotentemente in cerca di aria e di sole. Qui, invece, i rami si volgono uniformemente verso il centro, quasi a reciproca difesa da un nemico comune.
Mi informo quali siano le temperature atmosfe¬riche di minima e di massima. Mi rispondono che di giorno sono buone, di notte scendono notevol¬mente. In certi periodi ci si alza al mattino con
la brina. E' logico che l'altitudine e le condizioni climatiche generali non siano favorevoli alla pian-tagione di caffè anche se i trattamenti usati sono ottimi.
Ulteriori accertamenti presso coloni tedeschi e inglesi, che hanno abbandonato le piantagioni, con-fermano la mia diagnosi. Chi aveva venduto la fattoria di Lupembe ai nostri missionari si era certo liberato da un bel peso morto.
Seppi poi che Lupembe divenne un buon centro missionario: non si cercò la coltivazione del caffè, ma la cura del popolo di Dio.
Penso al rientro. Mi si offrono due vie: una, quella già percorsa, e l'altra, Dodoma-MwanzaKisumu-Nairobi, che mi dona il vantaggio di visitare missioni che mai avrei avuto occasione di vedere in futuro. Scelgo questa seconda strada.
Fratel Crespi mi riporta a Dodoma, dove prendo il treno per Mwanza. Ceno, servendomi del cestino da viaggio generosamente fornitomi a Tosamaganga, poi mi addormento profondamente. Quando mi sveglio al mattino, il treno entra nella stazione di Mwanza, sul lago Nyanza.
Un mondo nuovo mi si apre innanzi; il kiswahili, che mi ha servito egregiamente in Tanganika, mi permette di prendere contatto con la gente che mi indica la Missione Cattolica, retta dai Padri Bianchi.
Vengo ricevuto da un Padre di mezza età, cui spiego le circostanze che mi hanno dirottato a Mwanza. «E' fortunato », risponde. «Stavo andando a visitare una missione incipiente e qui non
resta che un confratello immobilizzato. Le farà certo buona compagnia! ».
Poco dopo mi presenta ad un missionario seduto su una carrozzella. Un incidente motociclistico gli aveva leso la spina dorsale privandolo dell'uso delle gambe. Aveva fondato diverse missioni, ed ora, da quindici anni era immobile.
Al vederlo penso alla mia avventura, alle costole rotte e ringrazio il Signore d'avermi evitato il peggio!
Trascorro una giornata indimenticabile conversando con quel missionario. Verso sera m'imbarco su una piccola nave da traghetto e l'indomani sono a Kisumu. Di li raggiungo Nairobi. Avevo avvertito telegraficamente i miei confratelli di Manira e li trovo ad aspettarmi alla stazione.
Il mio giro di "esperto" termina nella gioia dell'abbraccio fraterno. Ma in cuore conservo con tristezza l'immagine di quel missionario che da quindici anni vive la sua giornata apostolica su una sedia a rotelle.
Guerra e prigionia
Il 10 giugno 1940 scoppia la Seconda Guerra Mondiale. Nello stesso giorno alla fattoria, numerosi ascari, guidati da due ufficiali inglesi, entrano in casa e ci leggono un breve proclama in cui siamo dichiarati "nemici di Sua Maestà britannicà". Domando a quei soldati se avrebbero gradito un bicchiere di birra. Sorpresi mi guardano in faccia e, poi, il sergente con un mezzo sorriso, risponde di sì.
Ma la faccenda si fa ben presto seria. Bevuta la birra, il sergente ci ordina la consegna dei registri e delle chiavi della cassaforte; poi, saliti sulla camionetta scortata dagli ascari, ci portano via. Siamo prigionieri di guerra!
Veniamo dirottati a Kisumu dove incontriamo i confratelli delle fattorie del Tinderet, altri civili italiani e tedeschi del distretto, tutti coinvolti nella medesima avventura.
Siamo trasferiti a Kabete, alla periferia di Nairobi. In questo campo di concentramento si trovano tutti assieme i missionari della Consolata: siamo novantadue!
Dopo decine d'anni di attività apostolica cominciano i lunghi giorni dell'attesa. Tutto è sossopra. Al nostro posto verranno in seguito missionari di altre nazioni e noi perdiamo ogni contatto con le nostre cristianità.
Altro trasferimento. Questa volta a Koffie Fontein, nell'Orange Free State (Sud Africa). In quel deserto squallido, in un campo di baracche circondato da tre ordini di filo spinato, passiamo altri tre anni prima di essere messi in libertà.
P. Carlo Andrione è nominato capo-infermiere dell'ospedaletto e io vengo scelto come suo aiutante; il nostro servizio è molto richiesto ed utile in un campo in cui sono stipate migliaia di persone, non sempre tranquille. Abbiamo gravi responsabilità sia davanti ai connazionali sia presso il Comando Militare. P. Andrione gode della stima di tutti e riesce ad allentare le forti tensioni tra gli internati, specie quando filtrano voci di una guerra a lunga scadenza.
Anche noi missionari passiamo da momenti di grandi speranze a lunghi periodi di sconforto. Provo come sia grama la vita di un prigioniero e come in certe ore sembrino insufficienti la fede e la speranza! Assisto impotente a casi di suicidio, di ammutinamento e di fughe rocambolesche terminate nel sangue e nelle rappresaglie. Quale enorme dono di Dio è la libertà!
Vita da campo, vita alle sbarre. Le più meticolose perquisizioni non riescono a privarci della radio clandestina, introdotta nel campo da connazionali, espertissimi in questo genere di imprese. Le voci di Roma, di Tokyo e di Londra sono puntualmente captate e rapidamente divulgate. Diventiamo tutti "ponti radiotrasmittenti".
La battaglia silenziosa e incessante tra internati e il Comando Militare Inglese è lunga e difficile. Ma qua la vinciamo noi italiani. E' una vittoria che ha il sapore delle cose proibite ed è alimentata dal desiderio di tornare uomini liberi!
Ritorno
Finalmente ci comunicano in modo ufficiale che la guerra è finita. Noi lo sapevamo già. Erano ormai trascorsi tre anni. Tuttavia gli inglesi invece di lasciarci liberi, ci riconducono in Kenya e ci rinchiudono nuovamente nel campo di concentramento di Kabete.
E' un vero supplizio essere a due passi dalle nostre Missioni e non potervi andare.
I nostri connazionali civili sono rimandati in patria, uno scaglione dopo l'altro. Noi Missionari, invece, dobbiamo restare nel campo. Voci di alcuni nostri cristiani ci dicono di subdole manovre mosse contro di noi da protestanti e funzionari senza scrupoli.
Le cose in realtà, sono molto più complesse. Mons. Riberi era partito all'inizio della guerra. Gli era succeduto alla Delegazione Apostolica di Mombasa, da cui noi dipendevamo, il P. Mac Carthy, dei Padri dello Spirito Santo. Dopo il nostro ritorno dal Sud Africa, egli si era adoperato per noi presso le autorità locali, a Roma e a Londra, e anche presso la Santa Sede.
Finalmente, il 14 agosto 1944, dopo cinquanta mesi trascorsi dietro i reticolati, i cancelli del campo di Kabete si aprono al primo gruppo di missionari. In due settimane siamo tutti in libertà. Siamo festosamente accolti dalla popolazione, cattolica e no: ma un'opposizione subdola continuerà ancora per anni. La nostra libertà è soggetta a pesanti restrizioni: siamo posti sotto tutela di superiori ecclesiastici non italiani e non africani; vi è lo scambio frequente di luogo e di lingua; il coprifuoco; i nostri spostamenti sono controllati dalla polizia.
Soltanto nel 1948 il nuovo Delegato Apostolico, l'inglese David Mathew, può assicurarci che le Missioni della Consolata sono definitivamente ristabilite nel Kenya!
Mau Mau e l'imprevedibile
Faccio ritorno a Manira, ancora un po' stordito da quegli anni di prigionia. Ma non trascorre molto tempo che, in Kenya, inizia la guerra per la libertà... Il Kenya, che si era visto coinvolto in una strategia di vittoria a favore dell'Inghilterra e degli Alleati, è preso dalla febbre dell'indipendenza.
Eritrei, Libici e tante altre nazioni, spingono i Kenyoti all'autogoverno.
Jomo Kenyatta diventa il leader e il trascinatore carismatico. Il suo ritorno dalla prigionia è accolto come un trionfo. Egli chiede apertamente l'indipendenza del suo Paese. Ma gli inglesi tergiversano. La Mau Mau entra allora in azione, mettendo a ferro e fuoco la Colonia. La guerriglia si fa sanguinosa: assalti, imboscate, agguati improvvisi. La gente vive nel terrore. Gli ascari, fedeli agli inglesi, sono massacrati in imboscate; il giuramento del sangue, compiuto con riti ancestrali, immette nel cuore un odio senza frontiere. C'è un momento in cui tutti sembrano affiliati alla Mau Mau, e i Missionari vedono le comunità cristiane sparire e svuotarsi le chiese. Nella Missione di Baricio due suore africane sono massacrate ed una gravemente ferita. P. Cremasco, parroco di Tuthu, la prima missione fondata nel 1902, scampa miracolosamente alla morte; P. Comoglio viene percosso e ferito gravemente; a Imenti, in un attacco in grande stile, P. Cavicchi riesce a scamparla buscandosi botte e un pangata sulla schiena, mentre suor Eugenia Cavallo, da trent'anni missionaria in Kenya, muore barbaramente assassinata. I cristiani che non obbediscono alla Mau Mau vengono percossi, trucidati o fatti sparire nella foresta.
Mentre sono assorto dai mille interrogativi posti dall'azione e dalle idee della Mau Mau, i Superiori mi invitano a un ritorno in Italia. Accetto volentieri. Da oltre vent'anni non vedo i genitori, ormai anziani; diversi malanni hanno minato la mia salute tanto che al Kenya si stupiscono che abbia potuto durarla cosi a lungo.
Nuova destinazione
Dopo aver trascorso un periodo di vacanze in famiglia e a Fiuggi per purificarmi i reni con le acque termali, mi reco in Casa Madre a Torino, desideroso di incontrare P. D. Fiorina, il nuovo Superiore Generale. Appena giunto, sorpreso mi sento dire: «Il Generale vorrebbe parlarle. Lo attende domani».
Durante l'incontro, molto cordiale, egli vuole sapere minutamente come vanno le cose alla Casa Procura di Nairobi e com'è l'attuale situazione sociale e politica del Kenya.
Mi ascolta, porge altre domande, prende annotazioni e poi, mi fa pressapoco questo discorso: « L'ho chiamata per dirle una cosa che forse la sorprenderà. In Consiglio abbiamo deciso che lei non continui più il suo lavoro a Manira; la sua salute non glielo permetterebbe... Abbiamo stabilito perciò di inviarla come superiore nella nostra Casa di Studi a Città del Capo. Là si trovano molti padri ancor giovani che frequentano l'Università. Lei potrebbe star loro vicino e svolgere inoltre un po' di lavoro pastorale ».
Sono letteralmente sbalordito. Da solo un anno vi è stato inviato P. Cagnolo come superiore. Sono persuasissimo che nessuno può fare meglio di lui, intelligente e preparato com'è, con alle spalle tanti anni di esperienza apostolica in Kenya e persino in India. Io conosco bene soltanto la mia impreparazione, non certo dirozzata da tanti anni di lavoro fra le piantagioni di caffè.
Stordito, domando come mai P. Cagnolo, dopo appena un anno, debba essere sostituito...
« Non se la sente di stare a Cape Town e ha chiesto di essere esonerato al più presto dall'incarico. Abbiamo pensato a lei. Avvieremo subito le pratiche per il visto d'entrata... Intanto lei continui le sue vacanze in pace».
Espongo le mie difficoltà. Sono ascoltato con molta benevolenza ma, P. Superiore alla fine conclude: «Vada nel nome di Dio e della Consolata. Vedrà che riuscirà benissimo! ».
Disarmato da queste parole di fede, accetto la volontà di Dio e pronuncio nel mio cuore il più amaro "Fiat" della mia vita!
Cape Town
Parto alcuni mesi dopo questo incontro. Raggiungo Mombasa, Nairobi e, per ottemperare ai desideri del P. Generale, mi reco a Manira per dare le consegne. Alla fattoria sanno già della mia nuova destinazione e trascorro giorni molto tristi: poiché non si abbandona tanto facilmente un luogo dove per tanti anni si è rudemente faticato.
Fatto ritorno a Nairobi, vi trovo con grande sorpresa P. Costanzo Cagnolo; ne approfitto per poter ricevere da lui istruzioni, consigli e tante altre cose ancora. Ma il padre è estremamente evasivo. Parla volentieri solo del clima, del panorama della stupenda città sudafricana, dei suoi abitanti e della nostra Casa, bella, arredata e con una decina di studenti. A un certo punto mi dice chiaramente: «Non voglio che raggiunga Cape Town con idee preconcette. Ha occhi per vedere e orecchi per sentire. Vada con fiducia. Poi, agisca secondo coscienza. I Padri giovani appartengono ad un'altra generazione".
(Fine prima puntata - continua)