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Tuesday, 24th March 2015 

L’uomo che evase dal consolato di Cape Town per non essere rispedito in Italia come un pacco postale

Sabino Carlone

Oggi Sabino Carlone siede nel suo ufficio di Salt River e pilota con invidiabile successo la sua “Timeless Bias Binding” fra le secche della palude in cui la globalizzazione ha precipitato certi settori dell’industria manifatturiera e tessile sudafricana, ma ci fu un tempo in cui per restare in Sud Africa dovette evadere dal consolato italiano di Cape Town prima che riuscissero a rispedirlo in Italia come un pacco postale. Ricordare l’episodio lo fa sorridere e il raccontare si fa colorito e pieno di spunti divertenti, ma all’epoca quello che sgattaiolò di nascosto dalla sede consolare, la stessa di oggi, era un giovanotto spaurito, fermamente deciso a restare in questo paese, ma anche spaventato dalle possibili conseguenze del gesto che stava compiendo, in un paese di cui non parlava la lingua e nel quale le uniche persone che conosceva erano proprio quelle che volevano rimandarlo a Minervino Murge, dov’era nato 24 anni prima. Quell’evasione, quella scelta di libertà, faceva di lui un immigrato clandestino, un alieno che poteva essere arrestato e rispedito in patria con foglio di via obbligatorio. Ma, a conti fatti, ne è valsa la pena.

Il suo sogno di gioventù era la carriera militare. La divisa una specie di passaporto per uscire dal grigiore della vita quotidiana in un paesotto pugliese del dopoguerra, rimasto, come un po’ tutto il meridione, “incontaminato” dai fermenti di quello che doveva diventare il “miracolo economico italiano”. I giovani di quei tempi, lo scrivente incluso, avevano un campo di scelta al tempo stesso vario e limitato, che si doveva fare subito dopo la scuola dell’obbligo. Mio padre, quando ancora andavo a scuola, mi diceva sempre: “Impara l’arte e mettila da parte”. E gli artisti che aveva in mente erano il barbiere, che oggi è diventato parrucchiere e può guadagnare molto bene, l’idraulico, il ciclista, il tappezziere o il sarto. A Sabino era capitata in sorte la sartoria. E lui, diligente, aveva imparato l’arte e l’aveva messa da parte per fare la valigia e andare a Foligno a frequentare la scuola militare. Ne uscì con la divisa di sottufficiale di artiglieria, sergente per l’esattezza, e l’ambizione di entrare a far parte delle forze Nato.

Sfortunatamente per lui non c’erano più posti disponibili e, congedato, si ritrovò per le strade di Roma con un sogno infranto, una divisa inservibile e le mostrine da sottufficiale inutili. Fortunatamente era nei pressi dell’Ambasciata sudafricana, in via Monte Grappa, e lo sguardo gli cadde su un manifesto che invitava i lettori ad andare a lavorare nel paese del sole. Ed ecco che l’arte appresa e messa da parte salva la giornata. Entra nell’Ambasciata, dice di essere interessato al sole sudafricano ma soprattutto a un’offerta di lavoro e scopre che il destino qualche volta è pazzerellone e ti imbastisce incontri che finiscono per cambiarti definitivamente la vita. C’è infatti a Roma il proprietario della Monatic Alba, industria d’abiti sudafricana, che sta cercando operai specializzati in sartoria. I due si incontrano e in men che non si dica Sabino Carlone si trova a sostenere un esame pratico, allora si diceva “prova d’arte”, in una fabbrica della periferia romana. Il risultato va oltre ogni speranza: “Fra tre giorni ti voglio a Cape Town”, gli dice l’industriale sudafricano. Tre giorni? Impossibile. Sabino deve tornare al paese, sistemare le sue cose, salutare parenti e amici, abituarsi all’idea di andare in Africa con un contratto di 18 mesi. Ce la fa in dieci giorni. Torna a Roma e i funzionari dell’ambasciata lo mettono sull’aereo. All’arrivo viene preso in consegna da altri, tutti gentili, tutti amichevoli, che lo scortano fino al suo nuovo posto di lavoro. È il 22 giugno del 1963.

Soltanto adesso che è arrivato e comincia a lavorare emerge un problema che tutti hanno ignorato. Sabino Carlone non sa una parola di inglese. Pazienza, pensa lui, il linguaggio di un buon sarto è universale, mi farò capire con il mio lavoro, mentre imparo quel tanto di inglese che mi serve per comunicare con i superiori e i colleghi. Ma il direttore della fabbrica la pensa diversamente. È anzianotto e ha capito subito che il giovane italiano, bravo e sveglio com’è, rappresenta un rischio che non può permettersi. “Non so cosa farmene – dice al titolare dello stabilimento. – Lo rimando indietro”. Così, proprio come un pacco ricevuto per sbaglio. Gli fa rifare la valigia, lo costringe a salire sulla macchina e lo porta al Consolato Italiano per farlo rispedire in patria da loro.

Sabino è disorientato, la barriera linguistica lo rende impotente, ormai rassegnato alla fine ingloriosa del suo breve sogno africano. Ma al consolato si ritrova fra italiani e mentre il suo nemico sudafricano cerca di spiegare agli impiegati perché quel pacco debba essere rispedito al mittente, l’usciere Paolo Betti gli chiede: “Ma tu vuoi restare?” e Sabino risponde di sì. “E allora scappa, poi stasera vieni a casa mia che ti faccio trovare la valigia”. E Sabino scappa.

Ora il destino, che si era appisolato, si risveglia e gioca al nostro eroe un altro dei suoi scherzi. Sabino scopre infatti che in Victoria Street c’è un ristorante che si chiama Grand’Italia, che il proprietario si chiama D’Ambrosio ed è anche lui di Minervino e conosce suo padre. E gli dà da mangiare e gli offre ospitalità. E il giorno dopo lo accompagna al Dipartimento dell’Immigrazione, dove gli fanno compilare dei moduli, gli restituiscono la camera all’albergo Rossi, gli anticipano 40 sterline per i bisogni urgenti e gli danno indicazioni per cercarsi un altro lavoro. “Attento, però, a non farti prendere dai poliziotti, se no quelli ti sbattono dentro”. Ogni mattina torna a controllare le offerte di lavoro e al quarto giorno lo portano alla ditta Nicholson & Company. Bingo.

Il proprietario gli mostra un magazzino pieno di cappotti cuciti tutti storti. “Sai aggiustarli?”, gli chiede. Lui si mette a lavoro, scuce un cappotto, lo rifà a regola d’arte, come ha imparato al suo paese, se lo mette addosso e torna dal proprietario, il quale, dalla gioia, lo abbraccia. “Prendi tutto quello che ti serve – gli dice – e aggiustali tutti”. I cappotti sono un migliaio. Sabino ha un nuovo lavoro, ma a condizione che impari l’inglese entro tre mesi. Ci riesce in venti giorni, almeno per quel tanto che gli basta per farsi capire. Il padrone gli dà carta bianca. Nove mesi dopo è direttore di produzione, con uno stipendio di 250 sterline al mese e la macchina, una Simca che lo servirà fedelmente per molti anni, fino a restare distrutta in un incidente dal quale uscirà vivo per miracolo.

Oggi Sabino Carlone ha 68 anni, compiuti il 5 aprile, e una sua attività industriale, non grande ma solida, il cui successo si regge soprattutto sulla flessibilità e l’inventiva, al punto che molte macchine sono state create o adattate nella stessa officina dell’azienda per rispondere alle esigenze di una produzione molto diversificata, che va dalla biancheria commissionata dai supermercati alle stoffe tagliate obliquamente per le industrie tessili, dalle fettuccine per le bordature, alle cinture dei jeans, a quelle dei cappelli.

Sabino Carlone resta alla Nicholson fino al 1968, anno in cui sposa Grazia Saporetti, nata a Forlì ma venuta in Sud Africa da bambina, con un cognome reso famoso in Sud Africa dallo zio Cleto, industriale e pioniere della pollicoltura prima di cambiare radicalmente vita e diventare, di nuovo pioniere, il fondatore della High Rustenburg Hydro, la prima vera “farm della salute” della provincia del Capo. Nel ’68 il trasferimento alla Wolpe Fashion, ma soltanto per poco. Nel 1971 rientrano nella sua vita i cappotti e va a dirigere una nuova fabbrica, ma dopo un poco il finanziatore sparisce e Carlone deve tornare a lavorare in diverse fabbriche di abbigliamento, dove dirige anche migliaia di operai che producono di volta in volta articoli diversi, dai blue jeans alla biancheria. Ma, dice, a quee livelli è un lavoro che ti logora, non puoi farlo per sempre. Nel 1989 tenta la sorte con una sua fabbrica di jeans per conto terzi, ma 42 furti lo mettono in difficoltà e gli assicuratori non vogliono neanche più vederlo. Ciononostante tiene duro fino a quando una mattina arriva in fabbrica e la trova sotto un metro e mezzo d’acqua a causa di una conduttura che si è rotta nella notte. È un nuovo segno del destino che non può permettersi di ignorare. Decide di non fare più produzione, ma soltanto taglio, ritornando all’arte imparata e messa da parte. Nasce così nel ’96 la Bias, che vuol dire appunto tagliare di sbieco. Oggi dà lavoro in media a 45 operai, che possono aumentare fino a 70 nei periodi di massima produzione. Ha una clientela ampia ma ben selezionata, che gli garantisce una continuità di commesse.

Il rapporto con i dipendenti è cristallino, basato sulla saggezza ancestrale di uomini e donne abituati a rompersi la schiena per guadagnarsi la vita, sia lui che i suoi operai. C’è fra loro un’intesa che va ben oltre quella che si può trovare comunemente fra operai e datori di lavoro. Al punto che, dice, “non li pago il venerdì perché potrei esporli al rischio di essere aggrediti e rapinati”. Quindi preferisce pagarli il martedì o il mercoledì. Sono tutti con lui da anni e non se ne vanno perché gli ha anche organizzato un fondo pensione che dà ottimi risultati. “Uno in cinque anni può accumulare anche 47.000 rand e se tiene duro arriverà a 500.000”, precisa, e sembra che stia parlando di un parente.

"Non ho mai avuto scioperi", dice con orgoglio, e si capisce che non ha dimenticato di essere stato anche lui un operaio, così poco importante da rischiare di diventare pacco postale. "Ultimamente, quando è mancata l’elettricità, dovevamo produrre da 80.000 a 100.000 metri al giorno, fino a 150.000, e non potevamo fermarci, se no avremmo fermato l’industria che dipende dalle nostre forniture. Allora li ho chiamati, ho detto loro che dovevano recuperare le ore durante le quali dovevano fermarsi per mancanza di elettricità, per rispettare i termini di consegna, e per un mese ogni ora persa è stata recuperata, senza mai lamentarsi, lavorando a turno dalle quattro del mattino alle dieci di sera. Hanno fatto tutti la loro parte”. E mentre lui conversa con noi e ci mostra i reparti della sua fabbrica, tutti continuano a fare diligentemente il loro lavoro.

"Quella che feci nel 1963 – conclude Sabino Carlone – è stata una scelta di libertà, la libertà di scegliere il proprio futuro". Una scelta che non ha mai rimpianto. E quello che allora era il futuro, oggi è un presente che gli sorride, non soltanto nel lavoro e nel successo economico, ma soprattutto negli affetti e nella famiglia, che è composta dalla moglie Grazia, dai figli Paolo e Milena, nati rispettivamente nel 1970 e nel 1974, dalla nuora Giovanna Marchesini, dal genero Nick Ralph e dai nipotini Giampaolo di 8 anni, Claudia di 5 e Sabrina di 3. Una bella famiglia.

Ciro Migliore

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