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Tuesday, 24th March 2015 

La lunga marcia di Salvatore Borsei nel 1930 : a piedi dalla Tunisia al Sud Africa in ventuno mesi

Salvatore Borsei

L’emigrazione al principio del ventesimo secolo era molto diversa da com’è oggi. Secondo Pitagora “quando passi i confini della tua patria, non guardare mai indietro”. E sembrava essere un fatto naturale per la gente della regione Abruzzo fare esattamente così. Davano l’addio alle loro adorate montagne e non si voltavano più indietro. Mostrarsi sentimentali sarebbe stato come dare prova di carattere debole e questo non si concilia con lo stereotipo della gente d’Abruzzo.

Mio padre, Salvatore Borsei, perse suo padre nella costruzione della ferrovia transiberiana nel 1888. Parigi divenne la sua città quando i suoi zii lo accolsero in casa loro e lui per questo si considerava un figlio adottivo della Francia.

Sposò mia madre nel 1922. Il lavoro scarseggiava e quindi prese la decisione di cercarlo altrove. Al principio del 1924 lasciò l’Europa e partì per Buenos Aires, in Argentina, Sud America. Là lavorò per una ditta inglese che aveva vinto il contratto per la costruzione di una delle più pericolose ferrovie del mondo, che serpeggiava da La paz, in Bolivia, a Lima, in Perù, fino a Bogotà. In certi punti la ferrovia saliva fino a 3000 metri. Si dovevano affrontare dirupi e si dovevano attraversare fiumi e i gradienti erano generalmente molto ripidi.

Nel 1930, dopo sette anni di questo arduo lavoro, si imbarcò su una nave a Caracas, in Venezuela, e ritornò in Italia, dove incontrò il suo primo figlio, mio fratello, che aveva ormai sette anni, per la prima volta.

Ma la polizia si mise a indagare sui sotterfugi con cui aveva evitato il servizio militare ed egli dovette scappare a Marsiglia, dove si imbarcò su una nave in partenza per la Tunisia. Di nuovo lasciava mia madre sola e incinta di me. Io nacqui il 23 marzo 1931, ma incontrai per la prima volta mio padre nel 1947, quando arrivai in Sud  Africa, a Palmietfontein, vicino a Johannesburg.

Sulla nave mio padre divenne amico di un tunisino, al quale parlò del suo piano di raggiungere il Sud Africa. Mustafà aveva molte cose in comune con mio padre, dato che anche lui aveva vissuto abbastanza a lungo in Francia. Ospitato per alcuni mesi dal suo nuovo amico, mio padre attese di potersi unire a una carovana per attraversare il deserto del Sahara. Di tanto in tanto, attraversando la parte algerina del deserto, nel Tassili, gli capitava di incontrare fortini della Legione Straniera francese, per cui, quando raggiunsero la regione montana dell’Ahaggar fu come arrivare in paradiso. Finalmente l’erba per i cammelli era abbondante e i beduini parlavano anche di fiumi sotterranei e di antiche pitture rupestri. Vi erano più vita, più acqua e più verde di quanto gli riuscisse di ricordare, il che gli faceva comprendere quanto fosse diventato come un isolano nel viaggiare per chilometri e chilometri fra le dune di sabbia. Questa regione con montagne alte quanto il Gran Sasso gli fecero anche sentire la nostalgia del suo amato Abruzzo.

Il viaggi proseguì e la routine più disgustosa ma necessaria era quella di dover bere dalle sacche di acqua fatte con gli stomaci delle capre. Il mattino presto, quando l’acqua era ancora fredda o bollita per fare il tè, era sopportabile, ma nel caldo asfissiante della giornata diventava disgustoso. Incontrarono numerose carovane lungo quella che veniva chiamata una strada, benché per lui dovesse restare un mistero come riuscissero a sapere dove stavano andando. Carcasse di cammelli morti e abbandonati nella sabbia gli ricordavano il famoso detto di Ungaro su come la morte tocchi la vita di ognuno.

Piano, da un’oasi all’altra, arrivarono fino a Bourem, che è il punto più a nord raggiungo dal fiume Niger nel Mali. La peculiarità del posto è che là dove arriva a toccare il 17.mo parallelo, si trova quasi esattamente sul meridiano di Greenwich. Più a sud, lungo il Niger, a Gao, la parte più faticosa dell’intero viaggio era finita. Sia gli uomini che i cammelli erano esausti. Il difficile tragitto da Tunisi a Gao aveva richiesto un periodo di quattro mesi. La carovana partì per il viaggio di ritorno e lui rimase là a compiere il proprio estino.

A piedi o in canoa riuscì a raggiungere Port Harcourt, nel delta del fiume Niger. Qui potè riposare in una stazione missionaria anglicana. A questo stadio della sua vita era ormai un provetto muratore e la sua voglia di essere utile in tutti i modi possibili era molto apprezzata dai missionari, non soltanto in questa missione, ma in tutte quelle che visitò nel corso del suo viaggio. Erano tutti più che felici che restasse per tutto il tempo che desiderava.

Mio padre sapeva che a Douala, in Cameroon, vivevano due suoi primi cugini, Quinto e Pio D’Amico e quindi aveva bisogno di essere in buona salute e in forze prima di partire per andarli a trovare. I fratelli D’Amico erano proprietari di una segheria nella giungla ed esportavano legname in Francia. La sua permanenza fra loro fu piacevole, ma ben presto decise di continuare il suo viaggio attraverso il Gabon e il Congo per raggiungere il fiume Congo. Da qui si diresse verso Leopoldville (Kinshasa), in Zaire. E questa parte del viaggio fu confortevole quanto la traversata del Sahara, ma per opposte ragioni. Il terreno era difficile e vi era fin troppa acqua a causare molte malattie e tante difficoltà.

Ci sono tanti santi, alcuni meritevoli di questo appellativo, altri no. Ma almeno i missionari in giro per l’Africa meritano un posto in paradiso, nel caso esista. Sono eroi sconosciuti capaci di altruismo nella forma più pura, senza vanità e senza egoismo.

Per raggiungere Kananga, a metà strada fra Leopoldville (Kinshasa) ed Elisabethville (Lumumbashi), fece uso soprattutto di canoe e scoprì che questo era un modo piacevole di viaggiare. L’acqua era pulita e rinfrescante, certamente molto diversa da quella nelle sacche di stomaco di capra nel deserto. Un incontro con una tribù indigena destò in lui una profonda impressione. Una grande folla aveva formato un  cerchio intorno a un grande appezzamento di terreno e aveva appiccato il fuoco all’erba. Poi avanzavano lentamente verso il centro del circolo e tutto quello che trovavano già cotto dalle fiamme veniva mangiato. Formiche, topi, serpenti, vermi, eccetera. Ma che ne sanno di bocconcini appetitosi i frequentatori di Maxim a Parigi? Queste erano vere delicatezze.

La traversata da Lumumbashi, in Zaire, allo Zambia (Northern Rhodesia) non presentò alcun problema e ancora una volta trovò ospitalità in una missione anglicana a Mufulira, sulla Copperbelt (cinture del rame). E di nuovo pagò in natura per l’ospitalità, ma dopo alcuni giorni cadde ammalato e svenne. Aveva raccontato la sua odissea a uno dei missionari, il quale fu veramente addolorato nel vederlo morire dopo aver superato tante avversità. Il corpo fu coperto con un lenzuolo e sistemato su una barella. Fu scavata una tomba nel piccolo cimitero della missione e mentre il “corpo” sulla barella veniva trasportato alla sua estrema dimora, il missionario che lo accompagnava recitava le ultime preghiere. Il movimento ondulatorio fece uscire un braccio dalla barella e il missionario si chinò per rimetterlo a posto. Nel toccarlo gli sembrò di percepire un battito cardiaco e così il funerale fu annullato. Per sua fortuna il braccio uscito dalla barella era proprio dalla parte del religioso in preghiera.

Dopo un periodo di convalescenza riprese il suo viaggio verso sud attraverso lo Zambia (Northern Rhodesia) e lo Zimbabwe (Southern Rhodesia). Fu come una passeggiata nel parco, dato che di tanto in tanto erano anche disponibili mezzi di trasporto motorizzati. Attraversò il confine per entrare in Sud Africa e si diresse subito verso Johannesburg. A sua insaputa, il suo amico missionario di Mufulira aveva scritto alle autorità sudafricane, informandole della sua morte, per cui, al suo arrivo, erano già a conoscenza del suo lungo e difficile viaggio. La sua storia li aveva colpiti e commossi, al punto che gli diedero subito la residenza permanente.

La marcia era finita e la sua destinazione finale era in vista. Salì su un treno per Durban, dove ebbe il benvenuto dai molti suoi corregionali abruzzesi: Argentieri, Cocciante, Buccimazza, Morelli, eccetera. Erano quelli gli anni in cui si costruivano ferrovie e ponti in tutto il Natal (KwaZulu Natal) e fu ingaggiato come caposquadra da Olaff Grinaker. Non prese le malaria pur avendo attraversato l’Africa a piedi e trascorrendo gran parte della sua vita lavorativa nei cantieri all’aperto.

La sua avventura africana, cominciata nel settembre del 1930, si concluse nel 1932, un’odissea di 21 mesi. Mio padre era nato nel 1885 e morì nel dicembre del 1969. Aveva 84 anni.

Mario Borsei


The long walk by Salvatore Borsei in 1930: from Tunisia to South Africa in twenty one months.

Emigration towards the beginning of the 20th Century was very different to what it is today. As Pythagoras once said: “When you cross the boundaries of your homeland, never look back”. It seemed to be endemic to the people from the Abruzzo region in Italy to do just that. They would bid farewell to their beloved mountains and never look back. To become sentimental would have shown weakness of character, and that does not fit the stereotype of the people from Abruzzo.

My father, Salvatore Borsei, lost his father to the Trans-Siberian railway project in 1888. Paris became his home when his aunt and uncle took him in and he therefore considered himself an adopted son of France.

He married my mother in 1922. Work was scarce and therefore a decision was taken to seek employment elsewhere. At the beginning of 1924 he left Europe and set off for Buenos Aires in Argentina, South America. He worked for an English company that had the contract to build one of the most treacherous railroads in the world. It snaked its way through La Paz, Bolivia, Lima, ­Perù, and into Bogotà. In some parts the railroad reached the height of 3000 metres. Ravines had to be scaled, rivers had to be crossed and the gradients were incredibly steep. In 1930, after seven years of this arduous work, he boarded a Ship in Caracas, Venezuela, and returned to Italy, where he met his 7-year-old son and my elder brother for the first time.

The police launched an investigation into his subterfuge with regard to his military service and he fled to Marseilles where he boarded a ship sailing for Tunisia. Again he left my mother alone and pregnant with me. I was born on the 23rd May 1931 but met my father for the first time in 1947 when I arrived in South Africa and landed at Palmietfontein, near Johannesburg.

He befriended a Tunisian on board ship and expounded on his plan to reach South Africa. Mustafa had a lot in common with my father as he had lived in France for quite some time. Hosted by his newfound friend for a few months, he waited to join a suitable caravan to cross the Sahara Desert. Occasionally a fort belonging to the French Foreign Legion was sighted while crossing the Algerian Tassili section of the desert and when they reached the mountainous region of Ahaggar, it looked like paradise. At last there was grass for the camels and the tribesmen even talked of ghostly underground rivers and ancient rock paintings. There was more life, more water and more green than he could remember and it made him realize how insular he had become traveling over miles and miles of sand dunes. This region with mountains as high as the Gran Sasso made him nostalgic for his beloved Abruzzo.

Their journey continued and the most distasteful but necessary routine was having to drink from water pouches made of goat stomach. Early in the morning, when the water was cold or boiled to make tea, it was bearable, but during the scorching heat of the day, it was disgusting. They met numerous caravans along what they called a road, although how they knew where they were going remained an enigma to him. There were carcasses of dead camels lying forlornly in the sand that served as a reminder of Ungaro's famous saying that death touches one in life.

Slowly, from one oasis to another, they came to Bourem, which is the northernmost point reached by the Niger River in Mali. It has a peculiarity: as it touches the 17 deg. parallel it is almost slap bang on the Greenwich Meridian. Further south, along the Niger at Gao, the most gruelling part of the whole journey was over. Both men and camels were exhausted. They had endured the hardships from Tunis to Gao over a period of four months. The caravan turned back and he was left there to fulfill his destiny.

Either by foot or by canoe he reached Port Harcourt, in the delta of the Niger River. There he rested at an Anglican mission station. At this stage of his life, he was a master builder and his willingness to help in any way he could was very appreciated by the missionaries, not only at this mission but at all the mission stations he visited throughout his journey. They were only too happy for him to stay as long as he liked.

He knew that at Douala, in Cameroon, he had two first cousins, Quinto and Pio D'Amico and therefore he needed to be fit and strong before he set off to find them. The D'Amico brothers owned a sawmill in the jungle and exported wood to France. His stay was pleasant but only too soon he decided to continue his journey through Gabon and the Congo till he reached the Congo River. From there he made his way to Leopoldville (Kinshasa), in Zaire. This was just as uncomfortable as the crossing of the Sahara but also the complete opposite. The terrain was difficult and there was too much water which caused many diseases and many mishaps.

There are many saints. some deserve this status and some don't. The missionaries throughout Africa at least deserve a place in heaven - should it perchance exist. They are unsung heroes who show altruism in its purest form, without vanity and without selfishness.

To reach Kananga, half way between Leopoldville (Kinshasa) and Elizabethville (Lubumbashi), he mostly used a canoe and found this a very pleasant way to travel. The water was clean and refreshing, certainly a far cry from the one in the goat stomach pouches of the desert. One of his encounters with the local tribesmen impressed him enormously. A large crowd had formed a circle over a vast tract of land and had set it alight. They slowly swept towards the center of the circle and anything they found that had already been cooked, they ate. Ants, mice, snakes, worms etc. What did the people at Maxim's in Paris know?, these were true delicacies.

To cross from Lubumbashi, in Zaire, to Zambia ( Northern Rhodesia) presented no problem and he again stayed at an Anglican mission in Mufulira on the Copperbelt. Again he paid his way in kind but after a few days, he fell ill and collapsed. He had recounted his odyssey to one of the missionaries and this man was truly shocked to think that after all his travails, he was now dead. He was covered in a sheet and put on a stretcher. The grave was dug in the small cemetery of the mission and while the 'body' on the stretcher was being taken to its final resting place, the missionary accompanying it was reading the final rites. The tilting motion dislodged an arm and the missionary picked it up to put it back on the stretcher. As he did so, he felt a pulse, so the funeral was cancelled. Fortunately, the arm that fell from the stretcher was on the side of the praying man.

After a period of convalescence he continued his journey south through Zambia (Northern Rhodesia) and Zimbabwe (Southern Rhodesia). This was a walk in the park as motorized means of transport was available in fits and starts. He crossed the border into South Africa and headed straight for Johannesburg. Unbeknown to him, his friend, the missionary at Mufulira, had written to the South African authorities, advising them of his death, so, when he arrived, they already knew of his long and arduous journey. They were very impressed and deeply moved by his story and granted him permanent residence.

The walking had stopped and his final destination was in sight. He boarded a train to Durban, where he was welcomed by many of his fellow Abruzzesi : Argentieri, Cocciante, Buccimuzza, Morelli, eccetera. This was the time when railroads were being laid and bridges were being built all over Natal (KwaZulu Natal) and he was employed as a foreman by Olaff Grinaker. He never contracted malaria, even though he traversed Africa on foot and lived most of his working life on building sites.


His African adventure started in September 1930 and ended in 1932. His odyssey lasted 21 months. My father was born in 1885 and died in december 1969, he was 84 years old.

Mario Borsei
Traduzione di Maria Grazia Martinengo

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