• Italtile
  • Wanda Bollo
  • Giuricich
Saturday, 19th September 2015 

La costruzione della chiesetta di Pietermaritzburg e il teatro di Gregorio Fiasconaro nelle memorie del prigioniero di guerra Raffaello Cei

Abbiamo prelevato queste pagine, con il consenso dell'autore, dal suo libro intitolato "Diciassette", il suo numero portafortuna. Le abbiamo scelte perché raccontano come fu costruita la chiesetta di Pietermaritzburg, oggi monumento nazionale, come si viveva in prigionia, quali erano i rapporti fra detenuti e carcerieri e come cominciò la carriera sudafricana di Gregorio Fiasconaro, poi direttore dell'opera di Città del Capo e padre del campione di atletica leggera Marcello Fiasconaro.

Queste sono le memorie di un caporale del secondo reggimento di Artiglieria celere addetto al trasporto di un cannone caduto prigioniero degli Inglesi in Africa, durante il conflitto mondiale.

Mi chiamo Raffaello Cei e quella che racconterò è la mia storia. Non si tratta di una storia eccezionale, anzi essa è comune a molti giovani della mia generazione i quali, esattamente come
me, hanno vissuto la guerra conoscendone esaltazione e orrore. Sono ricordi lontani, forse sbiaditi dal tempo, come le vecchie foto. Ma la racconterò ugualmente perché è mio desiderio che i
giovani di altre generazioni conoscano meglio, anche attraverso storie come la mia, l’importanza e la necessità della pace.

Sono nato a Lucca, nel 1920, il 16 di ottobre. Avevo solo due anni quando Mussolini prese il potere, posso affermare perciò d'aver vissuto interamente la prima parte della mia vita, fino alla
maturità, sotto il fascismo. Voglio subito dire che proprio per quel motivo mi fu facile accettare come naturali, idee, consuetudini e simboli che ci venivano propinati proprio perché non ne avevo conosciuti di diversi e mai mi sorse il dubbio che essi potessero essere sbagliati o men che mai condurre alla rovina di tutto un paese.

Per esser sinceri, nella mia famiglia si respirava aria di socialismo. Mio padre, con alcuni amici, era solito riunirsi in un caffè dove discutevano di politica. Li chiamavano la “Societa del fiasco". Era gente inoffensiva: qualche impiegato, un paio di contadini inurbati da poco, artigiani. Bevevano un bicchiere di vino e fumavano il sigaro al tavolino di un caffè, scambiandosi opinioni da democratici moderati. Ma qualcuno li fece sloggiare ugualmente da quel semplice ritrovo e mio padre, dopo che qualcuno di loro ebbe assaggiato l’olio di ricino o era stato bastonato, ma soprattutto a causa delle insistenze di mia madre, smise di parlare di politica in pubblico. Credo però che dentro di sé conservasse per tutta la vita le sue idee democratiche che passò a me solo per allusione, forse nel desiderio di non complicarmi troppo l'esistenza.

Le cose andavano così. La paura delle idee è il primo mattone della dittatura, pero allora io non lo sapevo e vivevo come qualsiasi altro ragazzo nato e cresciuto sotto un govemo che
sistematicamente spogliava i cittadini dei loro diritti.

Nel 1939 avevo 19 armi. Dei nuvoloni neri che si addensavano sull’Europa e parlavano di guerra, sapevo poco o niente. Dal 3 marzo di quello stesso anno ero stato riconosciuto abile al
servizio militare e quell’avvenimento mi pareva l’unico davvero degno di interesse perche mi toccava personalmente. Come tanti ragazzi della mia età aspettavo infatti con ansia la
cartolina precetto per essere arruolato. Non c'era niente di strano in tutto questo. Sapevo che quello era il mio dovere e mi apprestavo a compierlo senza rammaricarmene e forse con l'ansietà che si prova da giovani nei confronti delle nuove esperienze.

Il 4 febbraio del 1940 venni convocato dal Distretto Militare e, dopo gli adempimenti di rito, mi accompagnarono alla stazione ferroviaria da cui, insieme ad altri giovani della mia leva, partii per Ferrara. In quella occasione mi diedero anche la prima paga: sessantacinque centesimi. Ero infatti già un militare a tutti gli effetti.

Poi la guerra in Nord Africa, le drammatiche avanzate e ritirate dal deserto libico verso quello egiziano e viceversa. Infine la sconfitta, la cattura da parte degli inglesi, il viaggio via mare fino a Durban e il trasferimento al campo di prigionia di Pietermaritzburg...

Vita al campo

Presso il comando era stato aperto un ufficio di collocamento per lavorare nelle fattorie della regione. Molti prigionieri chiedevano di essere impiegati nelle aziende agricole, preferendo la fatica a un ozio forzato che porta i cattivi pensieri. In genere si trattava di uomini abituati al lavoro del campi anche da civili, gente che non si improvvisava il mestiere. Ogni azienda ne prendeva da un minimo di due a un massimo di 20. Prima dell’accettazione bisognava andare a parlare col Farmer, sempre assistiti dal personale dell'ufficio. Non è detto che si fosse sempre accettati. Il Farmer aveva l’occhio lungo.

Ogni mese questi prigionieri rientravano al campo in visita agli amici e per fare il cambio dei vestiti o per altre piccole faccende. Portavano sempre qualcosa ai compagni rimasti al campo. C'era un ragazzo che ogni mese tornava con una trentina di faraone che, a suo dire, cacciava col solo aiuto di un bastone. Molti avevano delle storie piccanti da raccontare che facevano
venire anche a qualcun altro la voglia di tentare l’esperienza della campagna.

Intanto anche la vita al campo andava organizzandosi meglio, giorno dopo giorno. Erano stati costruiti campi per il gioco del tennis, della palla a volo e del calcio. Verdinelli, un atleta romano all’epoca molto conosciuto, organizzava tornei di boxe.

C’erano vari laboratori. Un orafo usava le monete d’argento requisite ai prigionieri per fare delle creazioni di gusto semplice ma squisito. L’alluminio di alcune grosse eliche d’aereo veniva
sfruttato per ottenere monili e accendisigari. Un negozio in centro esponeva nella sua vetrina tutta la produzione del campo. Nella falegnameria venne costruito un mobile per un ufficiale, il quale ne fu così soddisfatto che nel giro di pochi giorni cominciarono ad arrivare nel laboratorio macchinari piu complessi e legno di buona qualità. Vennero così costruiti mobili non solo per altri ufficiali ma anche per civili.

La fama della nostra operosità si era evidentemente sparsa in città. Questo fatto ci faceva sentire più orgogliosi di noi stessi di quanto lo fossimo normalmente, anche perchè l'entusiasmo col quale avevamo iniziato la guerra era andato progressivamente scemando a molti di noi soffrivauo di varie forme di depressione.

Coma spesso succede nelle cornunità, i più decisi, gli uomini dotati di un più forte attaccamento alla vita, riuscivano a cavarsela in ogni situazione, mentre i più deboli non ce la
facevano a resistere alla lontananza, alla sofferenza, alla delusione e si ammalavano.

Gregorio Fiasconaro

Un mio amico di campo, Gregorio Fiasconaro, dotato di qualità organizzative notevoli, si mise in testa di allestire una compagnia teatrale. Da civile, prima della guerra, era stato un giovane cantante lirico nonché pianista di belle speranze e adesso che si ritrovava confinato in un campo di prigionia cercava in qualche modo di non rinunciare ai suoi sogni. Riuscì addirittura a ottenere un’audizione e si esibì alla radio per ben due volte! Grazie ai buoni uffici di un sergente sensibile alla musica ci recammo nella stazione radio di Durban e, dopo l’emissione, il sottufficiale ci accompagnò a pranzo nella sua villetta lungo la costa.

Quando succedevano episodi del genere mi veniva spontaneo riflettere sul carattere del nemico che ci era stato definito crudele e perfido e che invece scoprivamo non solo umano maaddirittura accogliente e sensibile. Va bene che, nel nostro stato, il problema della fuga era pressoché inesistente. Dove avremmo dovuto fuggire e con quali mezzi? Ci trovavamo a migliaia di chilometri da casa, in un continente sconosciuto e ricco di pericoli, quelli sì reali. Nessuno, neppure il più ribelle tra noi, poteva immaginare di fuggire dai nostri carcerieri inglesi. Eppure, nonostante queste considerazioni, il fatto che i nostri nemici ci trattassero cou tanta umanità ci creava seri problemi e ci faceva riconsiderare tutto quello che ci avevano insegnato.


C'era di che perdere la testa!

Comunque, durante quell’incontro parlammo amabilmente colnostro carceriere e specialmente Gregorio si dette molto da fareper perorare la causa della creazione di un teatro nel campo.
Il sottufficiale naturalmente non aveva il potere di decidere, ma evidentemente la voce dell’intenzione di Gregorio cominciò a circolare e alla fine quel testone la spuntò.

Subito iniziò una febbrile attività di ricerca di copioni teatrali, di costumi e di scene. Il laboratorio artistico funzionò a meraviglia e chi sapeva cucire, tagliare, dipingere e disegnare
diede il meglio di se stesso. Ma anche i prigionieri che non avevano particolari talenti vennero impiegati in modo tale che ognuno poté alla fine sentirsi parte di un’impresa che ci faceva sentire utili come uomini e non quegli inutili avanzi della guerra che molti pensavano di essere.

Era stato creato anche un complesso musicale che, via via che nel campo transitavano prigionieri freschi, si arricchiva di nuovi elementi. Arrivò perfino un violinista dell’orchestra
dell'Eiar, una persona di alta professionalità che diede un impulso nuovo al complesso. Non mancarono occasioni per esibirci. Ci furono recite e concerti che affrontammo con impegno pari alla voglia che avevamo di affermare la nostra dignità e quella del paese dal quale provenivamo.

Ho ancora un articolo del giomale locale che così commenta una nostra esibizione nel teatro cittadino:

Splendido programma eseguito dai prigionieri di guerra italiani. Il pubblico entusiasta gremiva la sala. Raramente Pietermarizburg ha avuto occasione di ascoltare un così piacevole programma di buona musica come quello presentato ieri sera alla city hall dall’orchestra sinfonica dei prigionieri italiani diretti dal tenente medico Luigi Bezzio.

Il giomale proseguiva poi lodando gli assolo del violinista Martinucci e del baritono Fiasconaro che naturalmente erano i nostri pezzi forti.

Il secondo concerto ebbe risultati lusinghieri e nel terzo l’orchestra superò se stessa con un grande programma. I militari addetti al campo riferirono le opinioni favorevoli raccolte tra i
loro conoscenti che avevano assistito alle varie rappresentazioni.

I vigilanti nel frattempo erano molto diminuiti. Gli inglesi, alla porta del campo avevano posto un servizio di vigilanza organizzato da un gruppo di carabinieri. Nonostante il giusto
orgoglio per i successi ottenuti, quello che però tutti noi aspettavamo in cuor nostro era il rimpatrio. Ma i mesi passavano e noi eravamo sempre in quella terra sperduta d‘Africa.

La costruzione della chiesa

Tra le varie iniziative del campo quattro, la più importante fu senza dubbio la costruzione di una chiesa. Con l’incoraggiamento del Maggiore B.C Knight e poi del suo successore, Maggiore WG Lowe, vennero iniziati i lavori nei primi giomi del 1943. L’animatore principale dell’iniziativa era Padre Conte. ll progetto era del sergente Ottavio Aiello, che da civile faceva il costruttore e che diresse tutti i lavori. Ma fu grazie a due grandi scalpellimi siciliani, G.Bruno e G. Spanò, che il progetto poté prendere forma e realizzarsi.

La manodopera non mancava. Su un semplice carretto vennero condotti sul luogo scelto per la costruzione le pesanti pietre ricavate da una cava poco lontana dal campo. Tante furono le
braccia che tirarono, sollevarono, spaccarono, montarono ma il lavoro fu ugualmente immane. Il padre Conte non mancava di spronarci, ricordando a tutti che la fatica che facevamo non
sarebbe andata sprecata. Anche dopo la fine della guerra quella cappella di pietra sarebbe state la roccaforte del lavoro dei missionari in terra d’Africa.

La costruzione della chiesa si prese oltre un anno della nostra vita di prigionieri di guerra, ma alla fine, quando la vedemmo finita, bella e bianca contro il cielo azzurro africano, sentimmo dentro di noi un orgoglio impensabile.

Il delegato apostolico, arcivescovo Van Gijlsnjk, venne a inaugurarla con una messa solenne. Era il 19 marzo del 1944.

La Stampa locale diede notizia dell'evento con queste parole di cui fornirò una semplice traduzione:

La chiesa viene a colmare un vuolo da lungo tempo avvertito dal campo. Infatti ora i prigionieri ottengono dal ministero sacerdotale maggior guida e conforto spirituale. Nel sentire il calmo rintocco della campana, sia nelle ore mattutine come in quelle del tramonto, penso alla nostalgica riconoscenza che i prigionieri devono provare verso il ricordo del loro focolare lontano migliaia e migliala di miglia. Calmati gli urti odierni ritorneranno presso i loro cari ricordando questo sollievo spirituale che valse a rendere meno grigia la vita in prigionia. Dal punto di vista architettonico l'edificio si presenta in uno stile tutto suo, più vicino al dorico che al composito romano. Esternamente misura m.6,I5 in altezza, m 7,50 in larghezza, m.17,30 in lunghezza. Nella navata si aprono otto finestre, quattro per ogni lato, molto ampie per dare agio di assistere ai sacri riti stando al di fuori. Nel mezzo del coro si eleva l’altare, tutto in pietra, finemente lavorato. Due scalini fanno ala al tabernacolo che, artisticamente lavorato riproduce il frontale della chiesa. La porticina del ciborio è in alluminio e ha in rilievo un calice con ostia. Sopra l’altare si innalza il trono della Madonna formato da due pilastri sovrapposti, anche questi finemente lavorati con rispettive basi e capitelli sullo stile della costruzione. Il campanile, a torre quadrata, si eleva a sinistra della chiesa, alto m.9,50, con alla sommità una piramide sormontata da una croce. Il pavimento è fatto con lastre di pietra squadrata mentre il suo sagrato, pavimentato alla romana, é rialzato con due gradini. Una campana e l'armonium oompletano il tono e l’ambiente mistico dell'edificio. Non vogllo dimenticare l'opera pittorica di V. Ottocardi che riproduce la Madonna del Cardellino di Raffaello, posta al centro dell’altare tra i due pilastri.

Il governo sudafricano riconobbe in seguito quella chiesa monumento nazionale.

Io non partecipai attivamente alla cotruzione della chiesa ma posso dire di avervi ugualmente contribuito portando ai lavoratori alcune casse di corned beef che nel tempo avevo accumulato in magazzino. Erano le razioni di carne destinate ai sudafricani, i quali però preferivano la carne fresca a quella inscatolata. Oltre a questa carne provvidi a fare tagliatelle al pomodoro e basilico di cui i miei compagni andavano matti. La conserva di pomodoro era arrivata dal Vaticano mentre il basilico proveniva direttamente dal nostro orto. Questi pranzetti speciali destinati ai manovali però li organizzavo con qualche sotterfugio facendo credere agli inglesi, per esempio, che la carne proveniva da uno scambio equo con la verdura del nostro orto. Per spianare 500 porzioni di tagliatelle ci volle un bel po' di tempo e di fatica, ma chi poteva non si sottrasse a questo compito, dandoci dentro con vigore.

I costruttori di chiese inoltre ebbero altri viveri di conforto, come banane, ananas, dolcetti che sfornavo a ripetizione. Mi pareva in questo modo d'essere anch'io nella stessa squadra e m’inorgoglivo per i progressi della costruzione. Nella mensa ormai ero responsabile di ogni cosa. Al mattino il capitano Shearing firmava in bianco i vari ordini d'acquisto e io,
con un camion guidato da un autista di colore, andavo in città per gli approvvigionamenti sia per il bar che per gli extra della cucina. Dal macellaio, dal grossista delle sigarette, dalla birreria e al supermercato Ross & co.

Proprio in questo supermercato faceva la commessa Mabel, una brunetta che si era invaghita del mio amico Gregorio Fiasconaro. Si erano conosciuti a uno dei concerti organizzati dal mio compagno e, di nascosto, la sera, si incontravano. La parte che avevano riservato per me era quella di messaggero d’amore, parte che non mi entusiasmava, ma che facevo ugualmente di buon grado per amicizia. Ogni giorno andavo al banco dove lavorava Mabel con la scusa di comprare o cambiare una bustina di colorante mentre invece lasciavo o ritiravo dei messaggi.

La vita di Gregorio era molto più lieve rispetto alla nostra. Lui aveva la musica e, adesso, anche l'amore! Io, invece, soffrivo il mal di denti. Le mie sofferenze erano cominciate nel deserto. Le privazioni che avevo dovuto subire in seguito non avevano certo aiutato le molte carie di cui la mia bocca era ricca e che in seguito si aggravarono in modo preoccupante.
Una mattina andai a trovare il dentista italiano del campo che iniziò la cura. Con un trapano a pedali a cui spesso fuoriusciva la cinghia, e infliggendomi molte pene, in qualche modo riuscì a rimettermi a posto i denti. Ma dovetti rinunciane a gran parte della mia dentatura, che venne sostituita da una rudimentale quanto efficace protesi. Se tralascio queste sofferenze - che non furono poche - la mia salute si mantenne sempre buona e di questo devo ringraziare il Signore che ascoltò le preghiere incessanti di mia madre.

Le spedizioni di pesca

Venne il Natale del 1944. Lo festeggiai alla mensa insieme ai pochi militari rimasti in servizio. Ormai nessuno di noi sperava più d'essere rimpatriato a breve. Delle sorti del nostro paese disgraziato sapevamo poco o niente. Continuavamo però a sperare. Come non si può non sperare quando si hanno 24 anni?

Nella cucina frattanto era venuto ad aiutarmi il mio amico ferrarese Francesco Chiarabelli, mentre Rino Balboni aveva aperto al campo 4 la rosticceria che produceva cose tanto buone da far affluire anche sterline. Erano in molti quelli che preferivano al rancio un piatto di gustosi spaghetti al pomodoro. Con la complicità di un sottufficiale canadese poi andava a comprare il maiale in una fattoria fuori dal campo e, forte della sua esperieriza di macellaio, riusciva a ricavarne ottime pietanze che venivano vendute senza problema.

Personalmente posso dire che avevo con tutti buoni rapporti, anzi, in occasione di ricevimenti o buffet ricevevo molti apprezzamenti che mi riempivano di soddisfazione e in qualche modo lenivano la mia pena di prigioniero.

Il capitano Van Zeal, appassionato di pesca, a volte cercava la mia compagnia per una battuta dalla quale tornavamo immancabilmente carichi di piccoli pesci iridescenti che credo fossero gobbi. Un pomeriggio un amico passo dalla cucina e disse:

- Cei, prepara tre bistecche grosse, qualche panino, un paio di birre e la griglia per il capitano. Andiamo a pescare.

Mentre pescavamo in un lago che distava dal campo una quarantina di chilometri, io preparavo il fuoco intanto che aspettavo il loro ritorno. Ma il tempo trascorreva e niente rimaneva impigliato nei loro ami. Le parolacce e gli improperi si sprecavano e sembrava proprio che per quel pomeriggio la pesca sarebbe rimasta infruttuosa quando un grido richiamò la mia attenzioue. Un grosso pesce doveva aver abboccato ma, dopo aver preso tutto il filo della lenza, forte del suo vigore, aveva spinto il galleggiante fin quasi il centro del lago e i pescatori non sapevamo come recuperarlo. Allora il capitano van Zeal si tolse scarpe e camicia tuffandosi in acqua e continuando a nuotare fin quando, nel mezzo del lago, recuperò il galleggiante e anche il “mostro" che lo aveva tirato tanto lontano dalla canna. Era un bel pesce che il capitano volle venisse cucinato all’indomani per colazione, magnificandone il gusto a vantandosi davanti ai suoi compagni ufficiali per l'abilita che glielo aveva fatto catturare quando ormai pareva perso. Feci poi altre uscite, preparando per ufficiali e soldati piccoli rinfreschi che accontentavano tutti a mi facevano sentire utile anche se non indispensabile nonostante la mia condizione di prigioniero.

C'erano momenti in cui gli inglesi, ufficiali o semplici militari che fossero, smettevano di essere ai miei occhi il “nemico" che ci aveva vinto e mi aveva imprigionato relegandomi in quella terra lontana e inospitale. Quelli che avevo davanti ai miei occhi erano esseri umani, dotati di qualità e difetti esattamente come ogni altro. Non sapevo se questa considerazione esponesse me alla critica dei miei compagni o fosse da considerarsi un atteggiamento poco patriottico. Ho sempre badato più alla sostanza che alla forma e anche allora, benché non fossi che un ragazzo, cercavo di imparare dai nemici tutto quello che di buono vedevo e non avevo alcun pregiudizio ma solo dei comuni sentimenti legato alla simpatia e all'antipatia che di solito esprimono gli uomini e determinano le scelte.

Non dimentico d'essere cresciuto sotto il fascismo, che aveva abituato tutto un popolo a pensare in una determinata maniera decisa altrove, ma so anche che la nostra gente italiana ha dei sentimenti più profondi delle forme che solo superficialmente può avere appreso se gli sono state imposte con la coercizione.

Della guerra, che avevo affrontato con la stessa leggerezza di tutti, pensavo tutto il male possibile a della mia condizione di prigioniero cercavo di ricavare quella consapevolezza, quel grado di maturità che mi avrebbe guidato verso un giudizio il più possibile sincero, vorrei dire obiettivo, di tutto quello che era successo nel mio paese e a me in particolare.

Raffaello Cei

  • Grandi
  • Nimpex
  • Rialto Foods

Contact

Direttore/Editor

tel. (0027) (021) 434 3210 cel. (0027) (083) 302 7771

3 Torbay Road, Green Point 8005, Cape Town, South Africa

email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.">

Disclaimer

"I contenuti offerti dal portale "LA GAZZETTA DEL SUD AFRICA" sono gratuiti, redatti con la massima cura/diligenza, e sottoposti ad un accurato controllo da parte della redazione. La Gazzetta del Sud Africa, tuttavia, declina ogni responsabilità, diretta e indiretta, nei confronti degli utenti e in generale di qualsiasi terzo, per eventuali ritardi, imprecisioni, errori, omissioni, danni (diretti, indiretti, conseguenti, punibili e sanzionabili) derivanti dai suddetti contenuti.

Testi, foto, grafica, materiali audio e video inseriti dalla redazione della Gazzetta del Sud Africa nel proprio portale non potranno essere pubblicati, riscritti, commercializzati, distribuiti, radio o videotrasmessi, da parte degli utenti e dei terzi in genere, in alcun modo e sotto qualsiasi forma."