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Tuesday, 24th March 2015 

Memorie di padre Maletto (2)

COLLANA UOMINI E MISSIONE 7
Un missionario piccolo piccolo
padre Lorenzo Maletto missionario della Consolata 1900-1980
P. Giuseppe Mina LM.C.
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA Via Arcoveggio, 80/740129 Bologna

Seconda parte: Vent'anni a Città del Capo.

La stagione dei trapianti di Barnard

Cape Town

Parto alcuni mesi dopo questo incontro. Raggiungo Mombasa, Nairobi e, per ottemperare ai desideri del P. Generale, mi reco a Manira per dare le consegne. Alla fattoria sanno già della mia nuova destinazione e trascorro giorni molto tristi: poiché non si abbandona tanto facilmente un luogo dove per tanti anni si è rudemente faticato.

Fatto ritorno a Nairobi, vi trovo con grande sorpresa P. Costanzo Cagnolo; ne approfitto per poter ricevere da lui istruzioni, consigli e tante altre cose ancora. Ma il padre è estremamente evasivo. Parla volentieri solo del clima, del panorama della stupenda città sudafricana, dei suoi abitanti e della nostra Casa, bella, arredata e con una decina di studenti. A un certo punto mi dice chiaramente: «Non voglio che raggiunga Cape Town con idee preconcette. Ha occhi per vedere e orecchi per sentire. Vada con fiducia. Poi, agisca secondo coscienza. I Padri giovani appartengono ad un'altra generazione; sovente i loro pensieri non collimano con i nostri. Ma, in fondo, vedrà, sono bravi... ».

La sera stessa P. Cagnolo torna a Nyeri per riprendere la direzione del "Wathiomo Mukinyu" il giornale cattolico locale, il primo nella Colonia, da lui fondato. Raggiungo Mombasa da dove mi imbarco.

Una stupenda giornata di sole mi introduce nel porto della famosa Città del Capo. Sul molo mi attende P. Remo Botto, che mi accoglie con grandi effusioni di cordialità.

Un amico, sollecitato da P. Botto, è venuto con la sua macchina a prelevarmi e così raggiungo la nuova dimora, lontana dal porto non più di quattro chilometri. P. Botto si dimostra lieto del mio arrivo, mi ragguaglia sugli studi ormai al termine, fra poco potrà finalmente raggiungere le scuole superiori al Mero (Kenya). Gli rincresce che gli altri Padri non siano presenti a ricevermi: è martedì, giorno di scuola. Li avrei incontrati a sera.

La casa è molto accogliente, circondata da alte piante secolari e immersa nel silenzio. La camera-ufficio che aveva ospitato P. Cagnolo è stata rimessa a nuovo. Incontro i giovani confratelli nel tardo pomeriggio; faccio conoscenza con i Padri Bernardo Bernardi, Carlo Vidoli, Giovanni Giugni, Vittorio Deleidi e altri; mi sono presentati inoltre quattro studenti che fanno parte della C-munità.

Le preghiere della sera recitate nella cappellina mi ridanno carica per mettermi al servizio di quei giovani... Quando rimango solo, penso al mio compito: mandato in Sud Africa come superiore della nostra Casa Studi, devo provvedere al suo buon andamento, assicurare che nulla manchi ai Confratelli affinché questi possano applicarsi serenamente agli studi e conseguire i titoli necessari per poter assumere compiti di responsabilità nelle scuole del Kenya. Approfitto dell'esperienza di P. Botto e P. Deleidi, dimostratisi subito disponibili a darmi una mano; ma devo tener presente che, uno dopo l'altro, se ne andranno tutti per lasciar posto ad altri. Io devo fare da cerniera...

Nei giorni successivi ho modo di rendermi conto delle difficoltà che avevano indotto P. Cagnolo a lasciare il posto per ritornare in missione. Esse sorgono proprio là dove io, ingenuamente, davo per scontato che non ce ne fossero: la casa non deve essere soltanto centro-studi, ma una casa religiosa. Il che non è facile da raggiungere. Non tardarono a spuntare giorni in cui pregavo così: «Dio, Tu che hai messo sulle mie spalle questa croce, aiutami a portarla con coraggio, e non a trascinarla ».

Pecore senza pastore

Fin dalle prime settimane della mia permanenza a Cape Town cerco di mettermi in contatto con le famiglie italiane ivi residenti. La cerchia delle conoscenze inizia con un elenco di una cinquantina di famiglie che P. Botto mi trasmette prima di partire per il Kenya. Mi rendo conto che serpeggia un diffuso senso di sbandamento. Lontane dalla patria, anche le migliori famiglie hanno abbandonato quasi ogni pratica religiosa. Alla mia domanda sul perché non frequentino più né la chiesa né i sacramenti, la risposta è sempre la stessa: «I preti parlano inglese e noi non li comprendiamo. Il nostro inglese è troppo povero e in chiesa ci annoiamo. Questi preti inoltre non s'interessano di noi» .

I Padri della Casa sono impegnati con gli studi e non possono prestare che sporadici servizi religiosi. Devo fare qualcosa. Intanto l'ufficio anagrafico della città mi fornisce un elenco di oltre seicento famiglie italiane! E' necessario prendere decisioni di ampio respiro, per raggiungere quelle pecore senza pastore. Preso il coraggio a due mani e raccomandata la cosa a Dio, mi presento all'Arcivescovo Mons. O. Mac Cann e gli faccio pressapoco questo discorso: «Le famiglie italiane qui residenti mancano di un'assistenza religiosa adeguata. Se vostra Eccellenza mi dà l'incarico, mi offro per essere il cappellano della Comunità ».

L'Arcivescovo, cuore grande di buon irlandese, va oltre: seduta stante, detta al suo segretario la mia nomina a Cappellano della Comunità Italiana per tutta la diocesi. Rimango stordito, ma ho ancora il coraggio e la presenza di spirito di esporgli un mio desiderio: comperare una macchina per svolgere meglio il mio lavoro. « Lei la comperi », mi risponde «io le prometto il saldo spese per la benzina, il bollo, l'assicurazione... » e mi congeda con una calorosa benedizione che rivela la sua contentezza.

Diverse famiglie italiane mi aiutano. L'economo generale, sollecitato, mi manda un assegno; io racimolo i miei risparmi e, dopo due mesi da quell'incontro, possiedo il mezzo che mi avrebbe procurato autonomia e rapidità di movimenti. Sono felice, entusiasta.

Fuoco di fila

Il lavoro va aumentando di giorno in giorno; passo all'ospedale a visitare i connazionali infermi; m'interesso delle pratiche che i nuovi arrivati non sanno svolgere; sono interpellato per telefono da un mondo di gente. I Padri giovani mi dànno una mano, ma il grosso del lavoro grava sulle mie spalle. Mi nascono in mente sempre nuove iniziative. Una di queste è l'idea di dividere in quattro settori la città. Stabilisco i luoghi d'incontro, avviso le famiglie e comincio. Una volta al mese celebro alla domenica la Messa a turno, zona per zona. Buoni i primi risultati: la Comunità corrisponde con entusiasmo, anche perché si sente agevolata.

Ormai, in una maniera o in un'altra, dal Console d'Italia all'Arcivescovo... all'ultimo emigrato, tutti sono a conoscenza del missionario itinerante, mingherlino e sparutello, sempre in moto per avvicinare gli Italiani in un Paese dove i cattolici non raggiungono il sei per cento.

Amici fidati mi sostengono e m'incoraggiano. Uno di questi, al secondo anno del mio impegno pastorale, mi dice un giorno: «Padre, perché non organizzare un Garden Party alla Consolata House? Bisogna estendere le conoscenze e renderle amicizie. Incontrarci nella Casa Missionaria, in un ambiente di festa... con lei, sarebbe tanto bello! Sono certo che le "Azioni Maletto" salirebbero sul mercato di Cape Town ».

Rimango un po' interdetto. Una vocina interna mi sussurra: «Accetta subito ». Un'altra invece, più timida, mi ammonisce: «Lorenzino, non fare il passo più lungo della gamba... ». Ascolto la prima, confidando nel Signore. Cinque uomini e cinque donne si radunano formando un comitato e si dividono i vari incarichi. Accettano che al Garden Party siano invitati anche l'Arcivescovo e il Console d'Italia.

Si stabilisce di comune accordo un piano di propaganda. Si invitano tutti, anche quelli che non si sono mai visti ai raduni domenicali. La lettera circolare viene spedita appena siamo certi del consenso dei due invitati d'onore.

Tutto riesce molto bene. Nel pomeriggio sono presenti oltre cinquecento persone, raccolte nel vasto giardino della Casa dei Missionari. Parla l'Arcivescovo. E' la prima volta che si rivolge in modo esclusivo ai nostri immigrati: «Sono ben lieto», dice, «di essere qui con voi e di sentire che voi mi siete vicini... ». Anche il Console ha parole d'incoraggiamento: afferma che il «sentirsi uniti nella fede e nell'amor patrio è un beneficio comune ». Io, non so come, supero il Lorenzino dalla voce flebile, lanciando, con il grazie per la partecipazione, l'invito ai giovani di dar vita a un Club tutto per loro. Applausi e adesioni! E' veramente una bella festa!

Vino, dolci, bibite... Tutto quel ben di Dio è stato regalato dalle famiglie e dai ristoranti italiani; ognuno è servito a... discrezione, all'insegna della gioia del ritrovarsi insieme!
A sera, quando gli ospiti se ne sono andati e la mia destra è quasi intorpidita dalle numerose strette di mano, mi ritiro nella mia stanzetta e ringrazio il Signore! I giovani Padri sono rimasti entusiasti quasi più di me.

Quell'amico aveva ragione: "Le Azioni P. Maletto" sono salite, ma con esse è aumentato anche il lavoro.

Il "Club dei Giovani" e altro ancora

Certe cose nascono adulte. Il "Club dei Giovani" è tra queste. Le numerose adesioni raccolte durante il ricevimento dànno vita ad un "Direttivo" pieno di fantasia, con tanto di Presidente, Segretaria e una sede che ricavo da una sala della Casa: giungono tavoli da ping-pong, bigliardini, tavole e tavolini; e così ogni domenica, dalle 18 alle 22, i giovani fanno irruzione nel nostro giardino, e la sede, provvista anche di un giradischi, offre musica per i tradizionali quattro salti in famiglia. Ogni due mesi: gita al mare o in montagna, secondo le stagioni. La voce corre. Molti in città si domandano cosa stia succedendo nella comunità italiana.

Poi i giovani propongono una squadra di calcio. Nasce l'Ausonia. Scrivo in Italia ai dirigenti della Juventus e dell'Inter. Giungono così le maglie dai fatidici colori e palloni da gioco in quantità. Cominciano le gare e gli incontri con altre squadre.

Ma il mio animo non è ancora soddisfatto! Le Messe domenicali sono ancora molto "silenziose". La vocina del cappellano raggiunge e conforta cuori e menti, ma "non si canta". Ne parlo ai giovani che dànno il loro appoggio e nasce così la cantoria. Io mi siedo al piano, in attesa che qualcun altro mi sostituisca. Finalmente arriva. Si fanno prove settimanali di canto. Le li-turgie domenicali vengono animate da armonie di ogni tipo, comprese quelle popolari, proprie delle regioni di provenienza degli immigrati, che si sentono di nuovo come nelle loro chiese d'infanzia e trovano il coraggio di manifestarsi cristiani!

I giovani sono inesauribili. Accarezzo ancora un sogno: la filodrammatica. Ne parlo con Angelo Gobbato, che frequenta l'Università e dimostra una grande passione per il teatro. E' un artista nato! Pensate che quando, dopo oltre vent'anni, lasciai Cape Town, era diventato direttore del maggiore teatro della città. Angelo trova altri giovani: una quindicina in tutto. Due volte l'anno si dànno spettacoli in un teatro con oltre quattrocento posti! Il ricavato va ai poveri e per coprire le spese di trasferta dell'Ausonia. E' una Comunità viva.

Resi corresponsabili, i giovani e gli adulti non mi hanno mai deluso.

A me rimane soprattutto il compito degli incontri personali con i giovani e i loro problemi. Si creano nuove famiglie cristiane, base fondamentale per una cristianizzazione in profondità. A sera vado a letto "stracco" morto. Una vocina mi dice dentro: «Padre Lorenzino, a Manira ti lamentavi di doverti impegnare soltanto in cose materiali. Ora non stancarti nel super lavoro missionario che io, il Signore, ti dono! ».

Altre iniziative

Gli immigrati desiderano trovare altri momenti per potersi incontrare e me ne parlano. Sta maturando quasi "un bisogno di trovarsi insieme" e di conoscersi meglio. Nascono così le "Cene sociali"... Il Comitato, sempre intraprendente, sceglie locali da quattrocento coperti; signore e signorine si prestano volentieri per il servizio. Le "Cene sociali" si realizzano due volte all'anno, con la partecipazione, alcune volte, dell'Arcivescovo e del Console. Tutto prende vita. Non ho di che lamentarmi!

La serietà del comportamento di tanti giovani è assicurata dai genitori stessi. Cresce la voglia di uscire dal ghetto, dalla "colonia" per diventare qualcuno.

Gli incontri suscitano il desiderio di avere una sala per la proiezione di film italiani. I nostri connazionali, pur lavorando in un Paese di lingua inglese, di questa non conoscono per lo più che l'indispensabile per sopravvivere. Non mi resta che approvare l'iniziativa. Così ogni domenica, quattrocento o cinquecento spettatori possono assistere a film di contenuto storico, culturale o di semplice svago; la "S. Paolo Film" mi viene in aiuto assicurandomi spettacoli validi, anche sotto l'aspetto morale. Persone capaci mi affiancano in questa difficile impresa.
Queste molteplici attività suscitano l'ammirazione del Console che vuole premiarmi con la Croce di Cavaliere d'Italia. La cerimonia semplice e decorosa si svolge in uno dei soliti raduni della Comunità Italiana nella nostra Casa. Approfitto di quest'occasione per lanciare un'altra iniziativa. Poiché si diceva in giro che la mia presenza era gradita (bontà loro): «Perché» dico io «non sarebbe gradito un giornalino, che mensilmente possa raggiungere tutti, proprio tutti? ». L'entusiasmo per l'iniziativa assicura la nascita e la riuscita di "Spigolature" che comincia a circolare, modesto nella veste tipografica, ma tenace assertore della fede, animato da molto entusiasmo. Dopo i primi numeri si aggiungono collaboratori e redattori capaci e creativi. L'Arcivescovo stesso mi incoraggia con un biglietto: «Benissimo per "Spigolature". Mi fanno riflettere e mi divertono! Continui ».

Quando, nel luglio 1975, lascio definitivamente il Sud Africa, passo a P. Mario Valli la direzione di questo foglio. E' giunto al 145° numero.

Posso dire di non essermi mai tirato indietro nel mio lavoro missionario: per raggiungere gli emigranti macino migliaia di chilometri; ogni quattro o cinque anni devo cambiare la macchina, e la Comunità, giunto il momento, si tassa per assicurarmi il mezzo di trasporto. Ho lasciato l'ultima macchina che contava 240 mila chilometri.

Ogni sera immancabilmente, dalle 19 alle 21, sistematicamente incontro due o tre famiglie; in quelle ore si trovano tutti in casa: la mamma, il papà tornato dal lavoro e i bambini dalla scuola. Gli incontri sono semplici, basati sull'amicizia; semino parole d'incoraggiamento, di fede, di ottimismo, secondo i bisogni. Si portano e si superano insieme le molte difficoltà che si possono incontrare lungo la strada di un immigrato. Affermare che venga sfruttato può sembrare una parola dura e ingiusta, ma, certo, l'ambiente che lo circonda, non lo rende migliore se non giunge da se stesso ad elevarsi. Il Sud Africa, poi, conosce tutte le sfaccettature del razzismo.

Di giorno visito soprattutto i malati all'ospedale. La caposala mi conosce e mi telefona quando in corsia ci sono emigrati italiani. Faccio amicizia anche con i medici; pur non favorevoli al nostro credo religioso, li trovo sempre tanto rispettosi.

Le ore tristi della morte sono condivise dalla Comunità e partecipate a tutti i connazionali attraverso "Spigolature".

Per principio, non accetto mai di fermarmi a cena presso le famiglie, che si stancano di farmene invito.

Posso tuttavia asserire che, se si cerca il vero bene dei fratelli, essi ricambiano l'oscura fatica con un'amicizia profonda piena di affetto riconoscente!

Operazioni al cuore

Il giorno in cui il prof. Christian Barnard riesce ad eseguire un trapianto di cuore, si accendono migliaia di speranze in tutto il mondo. Il professore sudafricano diventa quasi un mito, e Cape Town la centrale del "miracolo scientifico".

L'ospedale di Groote-Schuur mi è noto per le frequenti visite che vi faccio ai nostri malati di cuore.

Conosco il professore e suo fratello, prof. Marius, anch'egli parte della équipe degli esperti famosi per queste operazioni a cuore aperto o per la cura di difetti cardiaci congeniti. La loro fama raggiunge le Province d'Italia da cui provengono i nostri immigrati. Da lì a voler vedere curati i propri congiunti il passo è breve. Inoltre, richieste da ogni parte d'Italia e del mondo giungono a valanga. Ricordo i primi "malati" che vengono con il seguito dei fotoreporter di noti rotocalchi alla ricerca di emozioni. Faceva pena invece vedere dei pazienti arrivare soli e sprovveduti di assistenza. Cerco di offrire loro particolare spazio del mio tempo.

Alcuni giungono anche senza preavviso. Il prof. Barnard non manca di farmi presente che egli non è né un "taumàturgo" né un mecenate del bisturi e io lo devo dire alla gente.

L'afflusso diviene sempre più massiccio. Uomini, donne e bambini si rovesciano su Città del Capo. La segreteria del celebre professore mi passa, ogni tre mesi, la lista dei richiedenti italiani e posso cosi prestare una migliore collaborazione.

Mi reco a ricevere il paziente all'aeroporto, gli sistemo i bagagli in macchina, lo porto a destinazione, affidandolo alle cure dei medici. Cerco di tenermi al corrente della diagnosi e dell'operazione, che dura dalle cinque alle sei ore. Dire le trepidazioni dei congiunti è impossibile. Finalmente appare il prof. Barnard: se è sorridente, significa che tutto è andato bene ancora una volta. «Well, well », dice sottovoce guardandomi. Altrimenti... Qualche volta devo io stesso interessarmi per il rientro della salma.

Il fratello del professore, prof. Marius, manifesta una singolare simpatia per gli Italiani. Non disdegna quasi mai l'offerta di cene con piatti all'italiana, in cui non devono mai mancare gli spaghetti, di cui è molto ghiotto, e i vini delle Langhe che definisce "ottimi cardiotonici". Nei momenti festosi mi vuole con la brigata e dice a tutti: «Fr. Maletto is one of my best friends. (Padre Maletto è uno dei miei migliori amici) ». E' evidente che la particolare amicizia di cui godo da parte di questi due luminari della scienza medica mi giova per aiutare qualche immigrato che stenta a saldare le parcelle. Sono riuscito ad ottenere degli interventi chirurgici gratuiti.

Devo dire la verità che gli interventi con cifre molto alte li ho conosciuti soltanto al mio rientro in Italia. Il professor Barnard non richiedeva che 30-40 mila lire. La degenza post-operatoria, di sei mila lire giornaliere, però era lunghissima (da quaranta a settanta giorni). Il viaggio in aereo, la presenza di uno o due accompagnatori mandavano, tuttavia, alle stelle gli addebiti. D'altronde, può una moglie lasciar partire solo per Cape Town un marito, o una mamma il suo bambino?

Ritornati in patria, comunque andassero le cose, era commovente la riconoscenza che mi dimostravano con lettere e aiuti alle Missioni.

Nel diario in cui annoto le prestazioni di ministero, trovo segnati centoventidue malati di cuore che ho potuto assistere: centoventidue "indirizzi" formano, da soli, un notevole, attuale momento d'incontro!

Attacco cardiaco

Con gli anni, la mia salute va peggiorando. Fin da Manira i reni avevano minacciato di bloccarmi. Vi avevo posto rimedio passando in Sud Africa. Un'operazione alla prostata mi lascia postumi che mi debilitano un pochino. Ma la botta più forte arriva improvvisa: una trombosi coronaria mi porta all'ospedale privo di sensi. E' un mattino di febbraio del 1972. Tra la gente della Comunità Italiana corre ormai voce che io stia... per andarmene.

Sono curato da un simpatico dottore ebreo che mi tratta come fossi suo padre. In camera di rianimazione prima, in quella di degenza poi, per cinque settimane, ogni giorno o anche più volte al giorno, egli viene a trovarmi o lascia qualcun altro della sua équipe a sorvegliarmi. Un'infermiera professionale a turno controlla i diagrammi luminosi che segnalano ad ogni istante l'andamento cardio-circolatorio.

Ma vado riprendendomi poco alla volta. Sono dapprima permesse visite di pochi minuti, poi, sempre più lunghe, fino a potermi intrattenere con diversi gruppi di immigrati che mi vengono a trovare. La loro gioia è grande quando il bollettino medico segnala il "fuori pericolo".

Dieci, quindici, venti persone per volta, che ruotano attorno al letto di un prete, non possono non suscitare meraviglia da parte del personale e degli ammalati. Ne domandano il perché agli interessati. « E' il nostro padre », rispondono.

La mia gente non giunge a mani vuote: tutti si fanno premura di lasciare un dono. Ogni sera vengono i Padri della Casa Missionaria a prelevare, o meglio, a ridistribuire i doni in varie direzioni.

Non posso rifiutare quanto l'affetto di quei figlioli vuole esprimere.

Il mio amico medico s'interessa che il vitto sia buono e vario. « Lei deve guarire e tornare in azione », mi ripete incoraggiante. Dopo cinque settimane di degenza mi tiene questo discorsetto: «Per questa volta se l'è cavata. Ha superato bene la prova molto grave della trombosi coronarica recidiva. But, be careful (ma stia attento). D'ora in poi, dovrà riguardarsi molto. Ora che torna a casa, continui il riposo; più avanti potrà riprendere a guidare la macchina; lo sa, è atteso... ».

E mi dimette dall'ospedale. I miei Superiori da Torino mi inviano P. Enrico Colpi a sollevarmi di gran parte delle attività pastorali che sono fiorite in questi anni. Viene anche il giorno in cui mi si ordina il rientro in patria. Do le consegne a P. Colpi e a P. Mario Valli, arrivato anch'egli per facilitare il mio ritorno. Il Comitato del Centro Italiani di Cape Town programma cerimonie solenni di addio. Preferirei andarmene alla chetichella, ma non posso farlo.

Ho sempre cercato di agire alla luce del sole e non posso rifiutare un saluto di commiato che può giovare ancora al bene di tutti.

Il Missionario non vive per sé ma per gli altri. Una lettera circolare avvisa che domenica 6 luglio 1975 vien convocata la Comunità presso il Club Italiano e nella parrocchia di Nazareth.

"Spigolature" esce in edizione straordinaria. Io scrivo alcune frasi per invogliare tutti a perseverare nel bene. Provo una certa emozione nello stendere quest'ultimo numero; le cose che devo scrivere richiedono una più profonda attenzione. Ne esce fuori quasi un testamento spirituale.

Domenica 6 luglio: alle ore 11 i locali del Club, nella nuova sede al centro di Cape Town, sono inverosimilmente gremiti. Il Presidente del Club, Dr. Pagano, parla a nome della Comunità. Il Console, Dr. Zamboni, ribadisce il suo apprezzamento per il lavoro svolto. Parlo anch'io. Sono molto breve: l'emozione mi impedisce di dire tutto ciò che vorrei...

Si sta per servire liquori, bibite e dolci, il tutto preparato con abbondanza, quando letteralmente irrompe in sala il sig. Nino Nebuloni. E' giunto in ritardo. Avanza al tavolo d'onore, chiede la parola, prende il microfono e, con voce stentorea e la foga di un milanese scatenato, dice press'a poco questo: « ...Quanti hanno conosciuto e amato P. Maletto da oltre vent'anni, non hanno bisogno di nessuna parola. Ma i giovani, quelli del Club Italiano rilanciato, sì da essere, modestia a parte, il più bel Club di Cape Town, sappiano che è P. Maletto che ha realizzato questo. Altri hanno lavorato con lui, ma, senza di lui il Club non sarebbe quello che oggi è. La riconoscenza è la prima virtù. Ricordatelo, voi giovani, ricordiamolo noi tutti! ».

Restiamo sorpresi e commossi per l'immediatezza convinta di quell'intervento. Il raduno al Club è davvero un ricordo che non dimenticherò mai.

Domenica 13 luglio: è il momento religioso del commiato. La chiesa parrocchiale di Nazareth è gremita come non mai, tanto che molti devono accontentarsi di assistere alla Messa dai corridoi e dalla sacrestia. Al Vangelo lascio parlare il cuore, non badando allo sforzo che gli chiedo: «Carissimi, è l'ultima volta che ho il piacere di rivolgermi a voi. Sempre vi ho parlato in modo franco, in privato e in pubblico; speravo sinceramente di realizzare maggiori frutti spirituali. Se invece di dar vita a tante iniziative avessi fatto penitenza e pregato di più, chissà, avrei raggiunto i frutti conseguiti dal santo Curato d'Arso Purtroppo, non ho saputo imitarlo! Perdonatemi se in questo ho mancato verso di voi... ».

Il silenzio regna nella vasta chiesa, ma non è il silenzio di cui un tempo "mi rammaricavo": pur con tutti i miei limiti, la comunione dei cuori regna nella Comunità italiana di Cape Town!

Nel pomeriggio, i padri Valli e Colpi mi accompagnano all'aeroporto. Mi inoltro nel grande salone passeggeri inverosimilmente gremito, dove mi accoglie uno scroscio fragoroso di battimani.
Lo stile inglese e sudafricano non ama i battimani estemporanei; ma quelli, lo comprendo subito, sono degli emigrati italiani, che non paghi di avermi salutato in due solenni circostanze e negli innumerevoli incontri personali, mi hanno raggiunto all'aeroporto. Ci scambiamo ancora saluti cordiali e strette di mano. E' un addio a non finire.

Suona il gong: l'aereo è già in pista. Mani protese, grida di saluto. Abbraccio i due confratelli che mi hanno accompagnato. Salgo sull'aereo, mi accomodo sul seggiolino presso l'oblò che mi permette di vedere ancora nel decollo Cape Town che si allontana. Mi sale dal cuore una preghiera: «Signore, perdona il male che posso aver commesso e, se qualche cosa di bene ho compiuto, accettalo nel tuo grande amore. Amen! ».

Scalo

L'aereo fa scalo a Nairobi. Qui scendo. Posso visitare la tomba di mio fratello P. Giuseppe, che riposa nel cimitero africano di Mujwa fin dal 1965, incontrare mia sorella suor Rita che celebra sessant'anni di Professione religiosa. Presiedo alla funzione giubilare, come già sessant'anni prima avevo presieduto alla sua vestizione. Tutto è un amabile dono di Dio. Poi, inutile dirlo, Manira mi attrae ancora una volta.

La fattoria è stata ceduta a un signore che, al momento del mio passaggio, non è presente. Chiedo di visitarla e, ricevutone il permesso, P. Deleidi, sempre attento a rendermi meno doloroso il mio commiato dall'Africa, mi porta attraverso la piantagione del caffè. Noto che è perfetta nella sua vigoria; i numerosi miglioramenti apportati dicono che il nuovo padrone ha veramente il culto delle piante di caffè. Tutto è pulito e in ordine. Ne sono felicissimo.

Ad un certo momento noto un gruppo di donne al lavoro di sarchiatura con la panga in mano, il famoso coltellaccio tuttofare, che serve per i lavori dei campi, come, durante la Mau Mau, era servita per colpire ed uccidere.

Prego P. Deleidi di fermare la macchina; voglio incontrarmi con le donne del campo. Qualcuna nota che un bianco va verso di loro. Vi è un attimo di esitazione, poi si alza un grido altissimo: «Padri wetu, Padri wetu Maletto! » (Il nostro Padre, il nostro Padre Maletto!). Come se fosse scattata una molla azionata da una mano misteriosa, mi vedo attorniato in un istante. Riconosco ancora le donne di un tempo, anche se molti sono volti nuovi per me. E' un caloroso scambio di saluti, mentre si elevano i tradizionali trilli di gioia. Con un po' di sforzo cerco di districarmi, risalgo in macchina mentre loro sono ancora tutte lì attorno. Le più anziane si asciugano gli occhi con il dorso della mano, felici di rivedermi, meravigliate che, dopo
tanti anni, ci ritrovassimo e mi sentissero parlare nella loro lingua.

Sento che il cuore, poveretto, è affaticato. Faccio ancora un cenno di saluto, traccio una benedizione e lascio il campo delle donne. L'emozione è forte e non so come posso dominarla. Certa parte del cuore non vuole malattia.

Il 10 agosto 1975, verso le 9 del mattino, scendo felicemente a Fiumicino. C'è ad attendermi P. Igino Camera, direttore della Casa Generalizia, dove sono accolto con affetto e mi viene assegnata una camera al pianterreno.

Siamo in pieno ferragosto: un'afa, un calore estenuante regnano a Roma. Pure non mi rifìuto d'incontrare i vecchi amici, guariti al cuore a Cape Town.

P. Camera, intanto, prenota sul treno Roma-Torino, una cuccetta per me. Dico addio a Roma, che sento di non rivedere mai più. Il giorno dell'Assunta entro nella Casa Madre di Torino: la mia vita africana è finita.

La vocina misteriosa mi sussurra piano dentro il cuore stanco: «E ora, Lorenzino, preparati alla ultima tappa».

Sono un Missionario felice!

Finale in quattro punti
1.
Una persona come P. Lorenzo Maletto non crea alcun problema: P. Valperga, direttore di Casa Madre, è a conoscenza del suo precario stato di salute, lo va a prendere in macchina alla stazione
di Torino-Porta Nuova, e lo conduce alla sede centrale dei Missionari della Consolata. Gli assegna una cameretta al secondo piano, gli consiglia l'ascensore come mezzo ordinario per il dislocamento interno, e gli raccomanda, lo conosce bene!, che non tardi a segnalare qualunque bisogno. P. Lorenzo ringrazia; dice che già si sente meglio ora che è giunto a Casa Madre; vuol sapere l'orario delle funzioni religiose e dei pasti, saluta chi incontra con la sua espansività cordiale e, nel giro di due giorni, è pronto a rendersi utile in qualche cosa.

Il capo-infermiere, P. Zaverio Dalla Vecchia, invece, non è del parere di vederlo impegnato, se non dopo accurate visite di controllo. « Col cuore non si scherza », dice un po' rudemente.
Superati abbastanza bene i diversi controlli, P. Lorenzo insiste nel voler rendersi utile. Gli viene proposto di dare una mano al Centro Informazione Missionaria (CIM). Questo ufficio è, otto ore al giorno, a disposizione degli amici delle Missioni. P. Maletto lo trova congeniale al suo bisogno d'incontro con la gente: s'impegna subito a ricevere i visitatori e prende nota dei loro desideri. Chiunque ha bisogno di qualche informazione trova in lui un volto sorridente e attento.

Padre Maletto tira un sospiro di sollievo: egli ha estremo bisogno di comunicare agli altri la gioia di essere missionario. La ricchezza della sua spiritualità, semplice e concreta, trova subito riscontro nei numerosi amici. La voce corre: «Al C.LM. vi è un reduce dell'Africa, un missionario piccoletto, vivace, educato, tutto sorriso e gentilezza! ».

In breve tempo diviene amico di una lunga serie di persone. Il suo tratto accogliente e la sua fede robusta sono bene accetti a tutti, ai dotti e ai semplici, agli anziani e ai giovani.
Il lungo esercizio pastorale, soprattutto quello di Cape Town, l'ha affinato, reso intuitivo e capace d'una umanità, come definirla?, discreta e travolgente. E' difficile che, fin dal primo incontro, egli non... rubi il cuore: a chi una parola di consiglio, a chi il sollecito di un contatto con le Missioni, a chi ha bisogno di ascolto per versare l'anima afflitta.

P. Maletto è sempre lì nel suo ufficio e nei ritagli di tempo stende lettere ai benefattori. Chiede inoltre di sbrigare la corrispondenza con quanti ricorrono al Servo di Dio Giuseppe Allamano. P. Maletto lo ha conosciuto personalmente e ne ha pieno l'animo. Le sue lettere sono piene di spiritualità e di entusiasmo missionario.

Trova anche spazio e tempo per le "Dame Missionarie della Sofferenza". Scrive loro circolari mensili, sostiene chi soffre con parole che tradiscono la sua personale esperienza. Queste lettere circolari formano quasi un piccolo trattato di fede e di speranza sul valore della sofferenza.

Una buona signora non tarda a mettersi a sua disposizione per portarlo in macchina a visitare le persone malate. P. Lorenzo rimpiange i tempi in cui egli stesso "pilotava" la macchina, ma non rifiuta il mezzo offerto: i giovedl divengono per lui i giorni del contatto diretto con il Cristo sofferente.

Dopo la sua morte sulla scrivania dell'Ufficio CI.M. è stata posta una sua fotografia. Quasi ogni giorno c'è chi, venendo, ha parole di riconoscente affetto per lui: «Era un santo... Era la gioia e la speranza che parlavano... Era il sorriso che invita alla generosità », dicono. Queste voci testimoniano che è più vivo che mai, quel missionario, dagli occhi brillanti e umili che hanno conservato un fondo pieno di semplicità che sa di infanzia spirituale.

Un avvocato, piuttosto scettico e di poche parole, mi disse un giorno guardando quella foto: «Non so come siano i santi, ma, Padre Maletto per me era un santo».

2.
E' soprattutto negli anni trascorsi a Cape Town che questo missionario manifesta insospettate capacità d'incontro. Sa accattivarsi la stima e l'affetto degli immigrati, e la sua presenza alle loro necessità diventa partecipazione efficace. Si sacrifica sino allo stremo, se occorre. In una terra missionaria difficile come il Sud Africa, P. Maletto diventa l'amico e il fratello di tutti: neri, bianchi, dotti e meno dotti. Se questo è un dono di pochi, tra questi pochi, il "Malettino", come qualcuno lo chiama, è tra i primi.

I giovani gli vollero bene e ne subirono il fascino. Bisogna dire che "egli fu sempre dalla parte dei giovani", non per un "apostolato di maniera", ma in un modo da far fiorire nei giovani la fede, la gioia, la speranza. Il fatto, poi, che il Console d'Italia a Città del Capo si dia da fare per farlo nominare "Cavaliere d'Italia"; che il Cardinale, il 26 maggio 1974, in occasione del suo 50° di Messa, gli consegni a nome della Comunità Italiana una medaglia d'oro; che nel novembre 1973, a coronamento del suo giubileo sacerdotale, gli ex-malati di cuore e le loro famiglie, sparse in tutta Italia, lo vogliano a Roma per un'udienza straordinaria del Pontefice Paolo VI; che il Santo Padre pubblicamente dica: «Sappiamo che P. Lorenzo Maletto, che voi amate, vi ha assistiti...» (in "Osservatore Romano" 8-11-1973 è riportato per intero il discorso), manifesta che P. Maletto è al centro di molti cuori. Egli accetta, con umiltà e distacco grandi, le manifestazioni che gli si tributano. Tuttavia nelle note di diario si sente che ne è contento: sono le soddisfazioni di chi trova gioia nel dare sempre, affinché tutti, nella vita, non si stanchino di camminare ancora.

Negli anni seguiti al rientro definitivo dall'Africa (pochi in verità), P. Maletto si mette a ordinare con tenacia il grosso malloppo di appunti e note di diario in cui ha fissato la sua esperienza. Aveva anche manifestato il desiderio di scrivere una autobiografia per invogliare altri alla sequela del Vangelo. Giunge perciò a stilare ben 248 pagine, sveltite in 209 capitoletti dai titoli fantasiosi: "Il medico dice a mia madre: non morrà". "Il ceffone del parroco". "Ingresso all'Istituto". "Primi passi a Manira", "Il ribelle", "L'agguato", "Due leoni in fattoria", "Esperto", "Costole rotte", "Tentativi di fuga", "Vittoria"...

Scorrerli è un sollievo. Sono puntate di un romanzo d'avventure missionarie. Intitola quelle pagine "Ricordi". Si firma: "Lorenzo Maletto I.M.C.".

Fa leggere a qualche amico il suo lavoro. Ne parla anche ai Superiori. Come avviene in tanti casi, il tutto va per le lunghe. Egli non insiste e non ne parla più.

Riprendo in mano i "Ricordi", li leggo con attenzione e interesse. La sostanza è allettante, ricca di fiducia nella vita. I soliloqui che inserisce, sollecitato dalla vocina misteriosa (la sua coscienza, il Signore), che parla bonariamente a Lorenzino, hanno risonanze profonde.

E mi son detto: «Perché non attingere da "Ricordi", spunti, flash, riflessioni e racconti? E' testimonianza, che, limpida come un ruscello montano, offre acque per tutte le seti: la mia, la tua, quella dei giovani, quella degli amici vicini e lontani, quella di quanti lo hanno amato e a cui egli, così avrebbe parlato ancora. Ed ecco, m'è saltato fuori questo breve profilo.

In realtà P. Maletto ne esce promosso da una testimonianza vigorosa, capace di rallegrare, di far pensare, di animare più in là...

Penso che anche lui sia contento di fare ancora un po' di bene.

Ai primi di settembre del 1980, P. Maletto viene ricoverato in ospedale insieme con P. Vittorio Merlo Pich. Entrambi sono bisognosi di cure, anche in previsione dei rigori dell'inverno che è spesso insidioso. Padre Maletto aveva ancora avuto due piccoli infarti. Ogni tanto usciva nella battuta: « A Cape Town, il dottor Barnard mi ha detto di stare attento. Ero sì guarito, ma restavo sempre malato... ».

Passa giorni e giorni sotto controllo. P. Merlo Pich afferma che, lo stare con P. Maletto all'ospedale, è stato per lui come un corso di esercizi spirituali: preghiera, lettura, riflessioni, battute di incoraggiamento edificanti ai malati, ai medici e agli infermieri. Sovente è preso dal bisogno di silenzio e di preghiera più intensa. A sera accende la radiolina, in onda con l'emittente vaticana e si addormenta recitando il Rosario, più lieto quando è Papa Giovanni Paolo a guidarlo.

Poi ritorna in Casa Madre, e tanto fa che ottiene di stare ancora, almeno per mezza giornata, nell'ufficio, che per lui è diventato un centro di presenza missionaria. A chi gli dice: «Padre Maletto si sforza troppo... », risponde: «No, faccio quel po' che posso, ma, una cosa desidero: morire lavorando... ».

La domenica mattina del 28 ottobre 1980 si porta ancora al C.LM. per disimpegnare il suo servizio. Alle dieci, un attacco cardiaco lo schianta; riesce a stento a farsi sentire. E' trasportato d'urgenza in infermeria e quindi all'Ospedale Mauriziano. Alle 18 spira assistito dai Confratelli.

Il cordoglio più vero che accompagnò la sua morte è nel ricordo ancor fresco di tutti.

Il cuore generoso di questo missionario, piccolo e tanto grande, testimonia che la tenacia, la fede e l'entusiasmo nel seguire la vocazione missionaria non sono un prodotto lontano o di altri tempi.

Il giorno prima di morire aveva suggerito a una persona, che gli chiedeva consiglio, «di punteggiare la giornata di pensieri buoni, ardenti, per richiamare la presenza di Dio, invocando luce dallo Spirito Santo ».

La storia di questo missionario è tutta qui: punteggiare la giornata della vita con una costante risposta di bene!

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