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Tuesday, 24th March 2015 

Nova Scotia: un superstite racconta

La storia che segue è stata pubblicata nel gennaio 1984 nel primo numero della rivista mensile "Azzurro", che uscì a Johannesburg per dieci anni, fondata da Alfredo De Felice e Ciro Migliore, che ne erano anche condirettori. Qualche giorno fa dall'Italia il signor Toni Zampieri, fondatore del sito internet http://www.navenovascotia.com/, che cura con altri discendenti di connazionali che furono coinvolti nella tragedia dell'affondamento della Nova Scotia, ci ha chiesto di rintracciare quella testimonianza di un sopravvissuto per poterla inserire nel sito. Lo abbiamo fatto e adesso riproponiamo il racconto anche ai nostri lettori, con la stessa premessa che fu fatta diciotto anni fa su "Azzurro":

La seconda guerra mondiale. Per alcuni fu subito un tragico errore. Per molti soltanto una generosa illusione, nella convinzione di servire la patria. Comunque, una serie di pagine dolorose legate insieme dal filo del destino. Un destino beffardo e crudele, come nel caso della "Nova Scotia". Il comandante del sommergibile tedesco, che prima saluta sul ponte la nave che affonda, fiero del suo successo, e pochi attimi dopo si dispera perché realizza di aver condannato al naufragio degli alleati prigionieri, é emblematico di come la volontà e l'eroismo degli uomini siano poca cosa contro i tiri della sorte.

Presentiamo questo documento di un sopravvissuto come testimonianza di vicende che non si possono e non si devono dimenticare. L'abbiamo di proposito voluto lasciare così com'è stato scritto allora: con i suoi anacronismi e, forse, anche con un pizzico di retorica d'altri tempi, ma traboccante della bellezza di sentimenti puri e sinceri messi a confronto con una prova delle più dure.

La tragedia della "Nova Scotia" nel racconto di un sopravvissuto.

Vitale Moffa

Di mese in mese, vivendo con il sussidio che ci arriva da qualche parte, ma che nessuno vuole legalizzare per paura di un domani difficile, con le nostre preoccupazioni diarie, siamo rrivati inattivamente alla prima decade di novembre. Quello che più ci impressiona e più ci preoccupa sono le retate, di cui noi civili siamo stati finora immuni. Da qualche giorno, infatti, si parla di una retata generale. Gli alleati hanno bisogno di evacuare gente dall'Eritrea per alleggerire la sorveglianza e per far posto ai loro evacuati dall'Egitto. Approfittando di navi che rientrano scariche dal nord Africa, dove hanno depositato il loro carico prezioso di uomini e materiale, viene organizzato lo sfollamento. Si raccolgono uomini dappertutto; per strada, in casa, di notte, in qualsiasi ora del giorno. Quello che a loro interessa è liberare la città di persone a loro inutili.

I camions carichi vengono indirizzati ai campi di concentramento ed all'ora dei pasti ci si trasferisce da un campo all'altro. Si dorme dove capita, naturalmente per terra con la testa sulla valigia. Sballottati dappertutto, si arriva al campo di raccolta di Decamere. Lì si ha l'impressione che siamo degli indesiderabili; nessuno, infatti, ci vuole ricevere. Dietro le nostre proteste e dopo esserci abbrustoliti all'ultimo sole eritreo, ci fanno entrare in un capannone, dove, ancora protestando, ci danno qualcosa da mettere finalmente in bocca. Dovrebbe essere una zuppa di carne, ma di carne non c'è nemmeno l'ombra.

Nel campo eritreo c'è un gran daffare per catalogarci: si diventa un numero. Per pochi giorni siamo ospiti del campo, quanto basta per non poterci organizzare come i nostri che ci hanno preceduti. Giungono altri e ciò serve per rompere la monotonia di quei giorni. Operai e professionisti vivono la loro vita in comune e questo fatto porta qualcuno alla conclusione che siamo tutti uguali. Qualcuno tende a dimostrare la propria superiorità. Hanno però ragione i primi; infatti, non si fa distinzione di casta e di credo e la vita è uguale per tutti.

Nei giorni 14 e 15 di novembre 1942 si capisce che la partenza è prossima. Movimento insolito, chiamate per fotografie e per dare le proprie generalità. Molti sono con nome falso, sperando in una possibilità di salvarsi dal peggio. E' inutile, non sanno quello che li aspetta e potranno diventare dispersi.

Il 16 mattina si parte da Decamere. Siamo collocati su camions e su ognuno vengono fatte salire quattro sentinelle armate. Siamo ben guardati e non resta altro che chiudersi in sè stessi e pensare ai propri familiari, alla propria attività che resta sospesa, alla nuova avventura che ci aspetta. Rivedremo di nuovo l'Eritrea? Torneremo o ci perderemo per strada?

In mezzo a questo turbinìo di idee, i camions rombano sotto il sole sulla strada Decamere-Massaua. Nel mentre si gira un film; la pellicola rimarrà nella storia, alcuni di noi la potremo vedere, altri non la vedranno. Da lontano saremo una folla che si sposta, gli alleati diranno quello che vogliono, perché per loro siamo solo dei numeri, tanti capi da trasportare, secondo loro, in Rhodesia.

A Massaua ci si unisce al gruppo che arriva da Asmara e a quello prelevato sul posto. Si comincia a salire sulla nave. Ci contano: uno, due, tre, cento, duecento, settecentosessantotto. Qualcuno arriva in ritardo per riempire qualche posto vuoto.

Movimento insolito, pare che uno si sia buttato in mare, pensando forse ad una disperata fuga. E' ripescato e viene messo in gabbia, forse morirà lì chiuso, forse si salvera, nessuno sa niente, perché da questo momento quello che ad ognuno interessa è il proprio io.

Le idee si affollano nella mente di ognuno, si accavallano in una danza fantastica. L'ultimo pensiero, però, è per quel lembo di terra Eritrea che era nostro fino a qualche anno fa e che ora si allontana con tutti i nostri ricordi, i nostri sudori.

Massaua, che con la sua banchina brulicante di gente e zeppa di viveri ci aveva accolti festosamente qualche anno addietro, adesso è muta e forse, anche lei come noi, pensa al suo triste destino.

Massaua....., tu che come vedetta ci venisti incontro al nostro arrivo, tu che avevi dietro di te una terra piena di braccia italiane in lavoro continuo, ti dobbiamo lasciare, ci portano via e nessuno sa se un giorno ritornerà.

Terra d'Africa... Nostra Africa..., quanti ricordi e quanti sudori... Ti salutiamo tutti, andiamo via ma il nostro cuore è con te.
    '
Sulla "Nova Scotia"

Sulla "Nova Scotia" ci si sistema subito. I nostri bagagli sono pochi, qualcuno non ne ha, è a torso nudo e va cercando qualche camicia da amici, perché, preso sul lavoro, non ha potuto recarsi a casa per fornirsi di un po' di roba personale. Uno sguardo alla nave per la presentazione. E' una nave mista di 16 mila tonnellate, la cui vernice grigia di guerra nasconde l'età. A poppa, c'e il solito cannone con il solito guardiano che la nostra fantasia chiama "Capitan Cocoricò".

Eppure, in tanta desolazione, queste cose ci divertono. Stiamo stivati ed il nostro giaciglio è sotto il tavolo; qualcuno ha trovato il deposito delle amache marinare e se ne impadronisce perché pensa che potrà dormire meglio. L'illusione dura pochissimo, perché, scoperto, è costretto a restituire tutto. Qualcuno lavora in cucina, si adatta a fare il cameriere, il fornaio, o l'attendente di qualche ufficiale. Unico scopo è di poter trovare qualcosa da mangiare nei rifiuti delle pietanze. Il nostro rancio sa solo di grasso, carote, patate, patate e carote essate.

Ci presentiamo. Siamo noi: un duecento laureati, un quattrocento marittimi scampati alla furia della guerra che affonda le navi a Massaua, professionisti, commercianti e operai.

Di sera ci si proibisce di fumare in coperta e nella stiva non si può per via della respirazione che diventa difficoltosa. Ci guida un capitano rhodesiano che è sempre ubriaco, mentre a nostro contatto diretto sta un tenente, anch'egli rhodesiano, ex impiegato di banca, che forse da borghese passava la vita a riempire moduli ed ora, con una grandissima responsabilità, è diventato facilmente irritabile.

Sulla nave, oltre a noi, si trovano circa trecento soldati sudafricani che, mezzo fracassati dalla guerra del deserto, se ne ritornano a casa per riposare un po'. Nei loro occhi vi è un po' di amarezza in conseguenza delle ultime vittoriose giornate del nostro schieramento, in avanzata continua. Il resto è equipaggio. In tutto, siamo circa millecentosettanta uomini. A bordo vi sono alcune donne, mogli di ufficiali, e tra esse una di discendenza italiana, nata a Durban e moglie di un ufficiale sudafricano, morto all'Asmara. Ritorna a casa con una bambina di 10 anni circa, dopo aver sofferto ed aver ottenuto con chi sa quali sforzi il suo premio.

La vita a bordo non si può dire sia monotona. Vi è qualche imprevisto, cosa questa che ci mantiene attenti. A turno facciamo il servizio di pulizia e la nostra maggiore attenzione va al pavimento, che la notte ci serve da giaciglio. Alle nove del mattino, fatta la pulizia, c'è la conta. Tutti in fila in coperta con il nostro salvagente, amico inseparabile, compagno caro nella nostra avventura. Quando non è sulle spalle, ci serve da sedile.

Ci conforta il fatto che le cose in Africa vanno discretamente e molti sognano fermamente il loro ritorno in Africa. Qualcuno pensa ancora alla vendetta che farà su colui che lo ha denunciato e si ascoltano le notizie di "Radio Fante", che di tanto in tanto giungono anche a noi, non si sa per quale strada.

I nostri carcerieri, che sanno la nostra nazionalità, ci invitano a cantare. Forse nella loro mente pensano che noi, italiani, dobbiamo essere per forza tenori o baritoni. Alla meno peggio si imbastisce un coro. Cominciano in pochi e con timidezza... Si canta. Si capisce dalle prime note che è il "Coro dei Lombardi". Tutti lo conoscono e danno il loro contributo. Loro sono contenti e noi sfoghiamo il nostro sconforto con quel canto. Credo che nessuno di noi lo abbia mai cantato prima con tanto sentimento come in quel momento. Quel canto, che a scuola ci diceva poco o nulla, in quel momento assume un ruolo importantissimo per la nostra esistenza, e da noi è apprezzato in tutta la sua monumentalità. Credono forse di udire "O Sole Mio" o qualcosa d'altro? Stanno udendo un inno vibrante di italianità e lo devono applaudire.

Durante il giorno vi è un gran da fare per le vaccinazioni, che il tempo ristretto ha impedito di fare prima della partenza. Trasferimento da una stiva all'altra e questa volta non per numero, ma per nome: questo ci da un po' di sollievo perché pensiamo di aver riacquistato un po' di personalità. Nuovi amici di stiva e di tavolo. Si ritrova qualche amico vecchio, lasciato qualche giorno prima. Nuova sistemazione. Le giornate si susseguono con calma mentre la nave segue il suo corso a zig-zag. Qualcuno legge, qualcuno gioca, i più giovani vanno in cerca di mangiare e si accontentano di sbucciare patate e carote per mettere in bocca qualche carota cruda.

Giorno dietro giorno, usciamo dal canale del Mozambico. Siamo al 27 sera. Movimento insolito, qualche nave vedetta passa e fa segnali. Contrariamente al solito, siamo chiamati in coperta per esercitazioni di salvataggio. Il timore di una tragedia appare evidente sul viso di tutti. Si prevede qualche disgrazia. Ci si innervosisce e nessuno parla perché preferisce chiudersi nel suo guscio. Si immagina e si riflette. La notte non si dorme tranquilli. La stanchezza prende gli incoscienti, i timorosi preferiscono prendere l'umidità in coperta, e qualche goccia d'acqua.
Sono le 9 del mattino del 28 novembre. Rivista a bordo sotto un po' di sole che ha spazzato le nuvole e la pioggia. La preoccupazione affiora sui viso degli ufficiali che ci accompagnano; noi siamo più tranquilli perché ci troviamo in coperta ed un tuffo è più facile farlo. Il silenzio e l'immobilità generale sembra che annunzino la tragedia.

Il naufragio

28 novembre - ore 9.45. Due colpi, uno dopo l'altro, scuotono la nave. Dal fumaiolo escono fiamme miste a vapori. La nave e stata colpita in pieno nella sala macchine. Nessun panico: ognuno è consapevole di ciò che deve fare; responsabile solo delle proprie azioni, agisce indipendente dagli altri; i più paurosi si buttano in mare. La nave intanto si inclina e le fiamme l'avvolgono da prua a poppa. Non c'è più tempo da perdere. I nostri bravi marinai intanto si prodigano, diretti da qualche comandante italiano, a tagliare i cavi delle quattro scialuppe disponibili che cascano in mare e si schiantano sulle acque; le carrucole non funzionano perché arrugginite.

E' la volta delle zattere, che vengono gettate in mare una a una. Ognuno, in balia di sé stesso, cerca la via migliore. Siamo già in molti in acqua, altri sono attaccati ai parapetti in ferro, indecisi se buttarsi o no. Chi può prevedere la strada più sicura? La nave continua a galleggiare, pur ferita nel fianco, o affonda? I naufraghi saranno raccolti o verranno travolti dalle onde?

Pochi istanti ancora ed un sottomarino tedesco affiora alla superficie. Ne esce un giovane ufficiale con barba fluente, ne deve essere il comandante. Altri ufficiali lo seguono e si dispongono in fila per rendere gli onori militari alla nave che affonda. Qualche istante, una pruata, nulla più. In mezzo ad una macchia d'olio alcuni stretti alle zattere, altri nuotando, hanno davanti agli occhi la visione degli amici che, inebetiti, privi di qualsiasi iniziativa, sono rimasti stretti stretti alle barre della nave, rifiutando di gettarsi in acqua. Per loro la tragedia si è già conclusa; ed il loro libro gia si è chiuso per sempre. Per gli altri, in mare, si apre un nuovo capitolo, pieno di interrogativi.

Dopo una momentanea sistemazione si grida, con una voce sola: "SIAMO ITALIANI". Il comandante del sottomarino si mette le mani in testa e ci incoraggia a stare calmi. Due naufraghi sono raccolti a bordo. Nessuno ha saputo più niente di loro. Si saranno salvati o saranno affondati?

Mentre il sottomarino si allontana, portando con sé l'ultima nostra speranza, ci preoccupiamo di acquistare un po' di calma in mezzo a quella tragedia. L'olio intanto ci avvolge tutti con una patina spessa e sembra quasi, costringendoci a tenere le palpebre chiuse, che ci voglia impedire di vedere la tragedia. Ma la tragedia, con tutta la sua forza, è lì che si fa sentire con le grida disperate di aiuto. Grappoli umani, aggrappati a piccole zattere o relitti, galleggiano senza speranza su un mare che di ora in ora diventa piu agitato. Qualche ardito nuotatore si spinge da una zattera all'altra per trovare un posto migliore, e non si accorge che spreca energie che forse gli possono essere di immensa utilità dosandole opportunamente. Qualcuno invece se ne sta calmo all'orlo di una zattera, chiedendo solo un po' di corda, a cui si aggrappa galleggiando.

Intanto la morte continua a raccogliere le sue vittime. Mesi di campo di concentramento, stato febbrile provocato dalle iniezioni e dalle vaccinazioni fatte pochi giorni prima, denutrizione e preoccupazioni sentimentali aiutano la strage. Ogni morto è un posto vuoto, un salvagente in più da disporre. Qualche imprecazione, qualche preghiera, una litigata e poi silenzio. Qualche parola ci fa capire che siamo vicini ad una persona conosciuta, che al momento si presenta ai nostri occhi, tenuti aperti con due dita, in un ammasso di olio.

Il numero si assottiglia sempre e tutti pensano che dovrà anche arrivare la propria ora. Un apparecchio sorvola la zona della tragedia, ma poi prosegue il suo cammino. Dopo si saprà che era un apparecchio della linea Durban-Madagascar.

Quantunque la stagione sia ottima, il mare mosso e la temperatura bassa, dovuta al vento costante del sud, ci fanno sentire un po' di freddo. Si stabilisce un po' di calma e a mano a mano che ci adattiamo al nostro stato si avvicina la notte. La preoccupazione di salvarci la pelle non ci fa pensare alla solitudine e all'abbandono. Si tratta di vivere il momento, perché il soccorso deve arrivare. Siamo a 40 miglia da Durban e la nave sarebbe dovuta arrivare nel pomeriggio.

La notte si dilegua alle prime luci dell'alba. La patina oleosa che avvolge i nostri corpi ci difende dall'attacco dei pescecani, che si nutrono dei cadaveri che ci circondano. Sono dei nostri compagni meno fortunati di noi. Un altro giorno si presenta con una nuova speranza, ma intanto le file continuano ad assottigliarsi. La strage, intensa sul principio, ora va diminuendo, attaccando i meno forti di spirito. Prima uno... poi l'altro...  poi toccherà anche a me... In questa incertezza si vive aspettando quello che ci porta il minuto successivo.
La morte di un amico non ci impressiona più. In tali condizioni ciascuno di noi vive gli ultimi istanti di un condannato a morte. Sicuri di morire, con la mente vuota, ci si astiene da qualsiasi considerazione. Abituati a veder morire persone al nostro lato, siamo diventati insensibili.

Il vento e le correnti spingono i nostri relitti da tutte le parti, sparpagliandoci; la solitudine aumenta e la speranza va perdendosi.

Verso sera qualcosa appare all'orizzonte. Sarà la nave della salvezza?    Tutti cominciamo a gridare, dopo aver spalancato gli occhi incollati dall'olio; si spera che il nostro grido giunga alla nave. Saranno miglia che ci separano, ma la speranza ce la fa vedere più vicina, quasi a toccarla con le mani.

La seconda notte si avvicina, la nave si va illuminando, sembra un castello incantato. Una roccaforte in mezzo al mare, la roccaforte a cui si aggrappa il nostro desiderio di salvezza. Nessuno riposa: la tensione aumenta con il tempo. Momenti di scoraggiamento e di speranza si alternano, perché la nave si avvicina e si allontana frequentemente.

Sarà forse la speranza della salvezza a risvegliare in noi l'amore per la vita?

Il mare diventa cattivo, le ondate spazzano la zattera, buttandoci in mare, ma poi tutti, raccogliendo quel filo di forze che ancora ci rimane, ci spingiamo disperatamente di nuovo verso il relitto. In questo alternarsi di momenti tragici mi addormento, mi assopisco forse per le fatiche e sogno. Un'altra onda mi ributta in mare, svegliandomi. Risalgo e racconto all'unico compagno di zattera che avevo trovato un amico in bicicletta che, pedalando disperatamente sul mare, mi invitava a mangiare un piatto di spaghetti ad una trattoria che si vedeva da lontano.
Il mio collega ha fame come me e mi invita a riprendere le trattative con il mio amico. Non so e non ho mai capito se il suo era il ragionamento di una persona convinta. Forse sono già i segni di squilibrio mentale, forse sono i preludi della morte?

La nave si fa più vicina e si riallontana di nuovo. L'approssimarsi suggerisce di gettarci in acqua, ma il buon senso ce lo vieta, ed è bene, perché qualcuno che precedentemente l'aveva fatto non è arrivato a destinazione: stremato dalla fatica, è stato vinto dall'oceano.

Si pensa di fare una vela con le nostre camicie e di remare con le mani, ma non ne abbiamo più la forza. Ed il vento, poi, ci spingerà nella direzione giusta? Ormai si rinunzia a tutto.

La notte passa, più paurosa della precedente. Si ha il timore, infatti, di non essere visti dalla nave salvatrice. Perdendo questa opportunità, ogni speranza diventerebbe vana. In questi ossessionanti momenti si aggiunge alla depressione morale la stanchezza fisica. Si vivono ore tremende, momenti pericolosi per la nostra esistenza. Siamo qualcosa che un nulla può annientare per sempre.

L'alba del terzo giorno arriva e con essa si rinforza la speranza, perche il "Castello delle Mille e Una Notte" si avvicina sempre più a noi. Eccolo visibile. Adesso, a gran fatica per i nostri occhi, si distinguono perfino i colori della bandiera dipinti sul fianco: sono rosso e verde. Con un po' di fantasia si confonde lo stemma centrale col bianco e si grida che è una nave italiana.

Di che nazionalità sia, non importa, l'importante è salvare la pelle.

Ancora una volta si allontana e io mi assopisco per la stanchezza. E' circa mezzogiorno, il sole è tornato forte nel cielo e la stanchezza è più forte di noi. Un suono di campanella mi sveglia. E' la campanella di bordo, faccio per sedermi sulla zattera per vedere, ma due marinai mi fanno capriolare sulla scialuppa. Sono sfinito, ancora un minuto..... e...... Issata la scialuppa a bordo, sono sorretto da due marinai. Sono due cadetti della marina portoghese che parlano un italiano corretto. Sono un automa nelle loro mani. Vengo denudato degli ultimi stracci, come per cancellare in me gli ultimi ricordi di una grande tragedia e vengo portato alle docce. Il mio organismo non ha la forza di reggersi in piedi, dopo le 52 ore di naufragio. Un marinaio, sorreggendomi, mi lava alla meglio per tirare via la patina d'olio che ricopre il mio corpo e nasconde qualche probabile ferita. Se anche non riesce a lavarmi bene, la frizione dell'acqua calda riattiva un po' la circolazione del mio sangue, quasi paralizzato. Un senso di tepore mi fa riacquistare un po' di forza.

Condotto all'infermeria, sono esaminato minuziosamente. Non ho nulla di preoccupante. Il mio stato suggerisce però al medico di trattenermi in infermeria. I quattro letti sono occupati, mi si destina il posto vuoto a terra. Il fatto di appoggiare sul solido e di essere avvolto e protetto da una coperta mi ridà la forza per riordinare le idee.

Ritorno alla vita

Chiedo prima di tutto un bagno in vasca, che mi viene concesso. Con tutte le mie forze muovo i primi passi. Trovo qualche conoscente, chiedo informazioni di amici. La risposta è avvilente. La tragedia ha risvegliato in ciascuno di noi quel senso egoistico che nella nostra vita normale cerchiamo di coprire. Ci si riavvicina, si fanno considerazioni, ci si ambienta di nuovo. Siamo finalmente salvi è questo l'importante, liberi da ogni incubo di campi di concentramento. Una sola cosa ci preoccupa. Cosa avverrà di noi? E' una preoccupazione passeggera, che finisce nel nulla. Ormai nudi, aspettiamo la nuova destinazione. E' un ritorno alla vita che ci solleva lo spirito e ci riempie di gioia. Si dimentica il passato. Qualche ricordo di tanto in tanto ci intristisce, ma il mondo che ci circonda ci rimette in allegria.

Vestiti da marinai, con coperte o con lenzuola sulle spalle, giriamo sulla tolda della nave da guerra portoghese "Alfonso de Albuquerque" come tanti fantasmi, fantasmi della paura, ma ci tocchiamo con soddisfazione perché siamo viventi. Il mare ha lavato il passato e la vita si riapre ai nostri occhi. Qualcuno si interessa di classificarci, catalogarci, cosa che ci da ancora l'impressione di essere in un campo di concentramento. Viene voglia di gridare "BBBASTA"... No, questa volta è un connazionale che cerca di elencare gli scampati per comunicare poi notizie alle rispettive famiglie. Ci danno da mangiare. E' un piatto schiettamente nazionale portoghese, "Baccalà Albardado", in italiano si chiamerebbe baccalà fritto. E' meraviglioso, ma non si riesce a spingerlo attraverso l'esofago, forse si sarà chiuso per sempre, non avendo lavorato per due giorni; o è stato ostruito dalle sostanze oleose ingerite? Ricorro ad uno stratagemma: ingerisco il boccone con l'aiuto del liquido di una tazzina, di cui non sento il sapore ma che più tardi mi dicono che era grappa. La digestione  viene riattivata a poco a poco e con un po' di sforzo tutto si normalizza.

Ci si comincia a riabituare a tenere il nostro corpo verticalmente. Bighellonando per la nave si trova qualche amico, si scambia qualche opinione con lui e si fanno delle considerazioni; talvolta sono amare, e si resta muti, o rosee e il nostro volto per qualche momento si illumina. Mi imbatto in un mucchio di stracci e tra essi ritrovo i miei pantaloni, che avevo lasciati al momento del salvataggio. Mi ricordo che nella cintura avevo nascosto dei biglietti da cinquanta lire, sottratti alla solita perquisizione nemica, perquisizione fatta al solo scopo di soddisfare il desiderio soldatesco di trovare qualche cosa, qualche oggetto ricordo. Nascosti nella cintura, sono lì. Li conto: uno...due...sei, ci sono tutti. Meno male, so che non mi servono a niente, ma saranno un ricordo da portare con me per tutta la vita. Qualcosa che un giorno mostrerò ai nipoti e mi servirà di pretesto per iniziare un racconto. Triste, interessante, che racconterò come un sogno vissuto, qualcosa di lontano, che si perde nei flutti di un oceano.

Da un primo conteggio risultiamo centodiciannove ed una cinquantina di inglesi, sudafricani e marinai della nave.

Circa mille i morti, di cui più di seicento italiani. La perdita è enorme, anche perché il carico era prezioso. In un colpo solo sono infatti spariti circa 200 profesionisti: direttori di banche, medici, chirurghi, avvocati, ingegneri, architetti e alti funzionari di governo. Accanto a loro sono andati via anche gli umili operai, che hanno con il loro sudore impastato il pietrisco delle strade per permettere il passaggio dei rifornimenti per i lontani centri, e i marinai delle tante navi affondate a Massaua, che aiutarono a trasportare tali rifornimenti dall'Italia. Tutti avevano contribuito a fare un impero grande; tutto è scomparso in un solo colpo.

Ogni tanto si torna alla realtà e si abbandonano tali pensieri. Questa volta è un insolito movimento. A bordo nessuno sa cosa succede. Quelli che si possono muovere corrono sul ponte e poi vengono a riferire. Una nave da guerra sudafricana è apparsa all'orizzonte a chiedere al comandante della "Alfonso de Albuquerque" di dirottare verso Durban, dove musica e festeggiamenti avrebbero raccolto i naufraghi. Il comandante risponde secco che è deciso a portarci nel Mozambico. L'ordine, infatti, e di sbarcarci a Lourenco Marques. Questa decisione fa zittire il comandante sudafricano, che ripiega alla base.

La nostra ammirazione per il nocchiero si ingigantisce e se ne fa un eroe. Il comandante Brito viene portato da noi in palmo di mano.
 
Nel nostro bighellonare ci si imbatte in qualche inglese. Il contegno è corretto, non vi sono motivi per inscenare delle brighe dopo quello che si è passato. I tenente che ci accompagnava è lì con noi, seduto ad un tavolo, vicino a lui ci sono la moglie dell'ufficiale italiano, sudafricana di nascita, e qualche naufrago italiano. La signora pare che sia lì per stabilire il contatto fra i due gruppi. L'inglese si sforza di stringere amicizia con noi, offrendo sigarette. Nessuno di noi si preoccupa di quest'atto perché pensa ad altro.

La sera arriva e si va a dormire presto, anche perché il mare diventa cattivo. Verso le 10 vengo svegliato. Pare che un nostro connazionale sia morto. Viene gettato in mare. Colgo l'occasione per occupare il lettino lasciato vuoto.

La mattina ci si sveglia prestissimo. I marinai già da un pezzo sono svegli ed hanno rimesso tutto in ordine, ogni cosa al suo posto. Molti di essi sono guardiamarina, bravi cadetti che continueranno un giorno la tradizione dei loro antenati. Vorrei ritrovare quello che parla italiano, per ringraziarlo della sua gentilezza; ma non mi riesce perché non ricordo il suo volto, quel volto che potrebbe essere quello che mi guarda. Non è lui, è uno simile. Mi offre una sigaretta, l'accetto. Quell'atto ancora una volta mi commuove ed il mio sguardo si spinge sulla costa, che già si profila all'orizzonte. Vedo case sotto palme altissime, ammiro il panorama e mi vien fatto di idealizzare il posto. Che bello. Mi fisserò, se mi sarà possibile, fra quelle palme. Sono scosso intanto da qualcuno e rientro nella folla.

I preparativi dello sbarco sono quasi finiti. Il medico del porto è a bordo e ci esamina attentamente. Il porto e pieno di gente. Vi è anche qualche connazionale incuriosito. Probabilmente non sa che a bordo vi sono centodiciannove italiani, che parlano la sua lingua e che hanno bisogno di attenzione.

1 dicembre 1942

E' per i portoghesi un giorno di Festa Nazionale, per noi, invece, il primo giorno di vita. Ci sembra infatti di rinascere. Si sbarca. Chi a piedi, chi in lettiga, chi appoggiato a qualche amico piu forte. I camions ci aspettano lì, in ordine, sono camion militari a cui siamo già abituati e non pensiamo che essi invece ci porteranno verso la libertà. I più sani sono indirizzati ad un quartiere di soldati, i meno all'ospedale civile. In un primo momento non si fa distinzione di nazionalità, ma all'arrivo siamo separati per questione di prudenza. Molti si rifugiano nell'ospedale ma, quando sanno che gli altri sono liberi, si precipitano fuori a raggiungere i loro compagni. Si fanno nuove conoscenze.

Nel pomeriggio arriva qualche italiano residente, che, venuto a conoscenza del fatto, si è precipitato a visitarci. Gli chiediamo qualcosa di cui abbiamo urgente bisogno; va e ritorna per accontentarci.

Il giorno dopo, essendo stato comunicato ufficialmente alle autorità italiane il nostro arrivo, il Console e i suoi impiegati vengono a farci visita. E lì anche il Console tedesco, nostro alleato. L'entusiasmo è tanto forte che si canta "Giovinezza". Gli inglesi brontolano. Vola qualche imprecazione, i rapporti diventano tesi.

L'arrivo del Console inglese non porta altra novità, se non quella di allontanare i suoi, eliminando il pericolo di noie.

Passa qualche giomo e arrivano i primi doni. Una volta è il pigiama, che sostituisce il lenzuolo che serviva per coprirci nelle nostre brevi passeggiate all'aria libera; poi il dentifricio con lo spazzolino, le pantofole, il rasoio per la barba, sigarette e quanto altro richiesto da noi. Il Console fa il possibile per accontentarci in tutto, chiedendo aiuti agli italiani residenti più benestanti.

Qualcuno, passeggiando, involontariamente si avvicina alla porta, la sentinella portoghese, a gesti, gli fa capire che può, se vuole, uscire. Solo in quell'istante capisce cosa vuol dire libertà. Deve rinunziare anche adesso, perché è in pigiama e pantofole. Al ritomo del Console si fa notare la cosa e ci viene fornita una sahariana, fatta espressamente per noi. Il contatto col mondo civile tarda qualche giorno, ma è sicuro. Abbiamo atteso tanto e ci assoggettiamo all'ultima attesa.

La divisa ci fa tutti uguali e ci affratella ancor più. Si esce in gruppi. Gli italiani ci riconoscono subito e si stringono relazioni. I portoghesi anche, ma sono un po' freddi con noi. Passa qualche giorno e scopriamo il perché. Gli alleati hanno sparso la voce che noi siamo ex prigionieri civili, sfollati dalle carceri eritree per far posto ad altri. I soldati portoghesi vengono a conoscenza del fatto e si prodigano, avendoci conosciuti, a far sì che questa macchia scompaia per sempre. E' la nostra salvezza e si familiarizza con tutti. Le donne, vedendoci fermi davanti ai carrettini della frutta che girano per la città, ci offrono di scegliere quello che vogliamo. Sanno infatti che le nostre possibilità non ci permettono tali lussi. Per noi è la vita. Si mangia a sazietà e si vive tra persone comprensibili. La vita ci appare meravigliosa perché ognuno di noi pensa al passato e si ritiene felicissimo del nuovo stato, anche se in tasca vi è solo qualche scudo, e non si pensa al domani. Tutto ci appare bello, anche le cose più insignificanti.

Qualche giorno dopo arriva una notizia: un naufrago su una zattera, esattamente dopo una settimana, è stato sbattuto sulla spiaggia di Durban. Siamo così arrivati a 122. Per gli altri non c'è piu speranza. La immane tragedia volge alla fine, ma per noi resta un fatto. Tanti nostri connazionali sono morti, tanti ricordi sono sepolti nell'Oceano Indiano. Forse il tutto si poteva evitare. Molti, infatti, passati i giorni tempestosi, si domandano, raggiunta la calma: perché gli inglesi trasportavano dei civili evacuati dall'Eritrea con una nave ausiliare armata e con soldati a bordo? Usando le convenzioni internazionali si sarebbe potuto evitare la tragedia? E perché non hanno provveduto, evitando così tutta la colpa al sottomarino tedesco, che francamente era ignaro di tutto?

E la vita continua

Di giorno in giorno ci rendiamo conto del nostro nuovo stato. Si organizza una commissione per portare un regalo al comandante Brito. E' un piatto d'argento con su una dedica. Il comandante riceve la commissione e accetta, commosso, il regalo. Il giorno dopo fa mostra nella sua saletta di ricevimento, accanto ad un altro offerto dagli inglesi. Le due nazioni, in terra portoghese, erano unite, ancora una volta, come nella tragedia.

Il comandante racconta ed il suo racconto va di bocca in bocca. A noi interessa come una favola può interessare un ragazzino. La similitudine non è azzardata perché noi abbiamo cominciato una nuova vita, avendo seppellito il nostro passato nel fondo dell'Oceano. Apprendiamo così che dobbiamo la nostra salvezza al sottomarino tedesco. Al momento dell'affondamento, infatti, la nave non fece in tempo a trasmettere la posizione giusta. Il sottomatino tedesco, invece, seppe dare tutte le informazioni, compresa quella che tra i naufraghi vi erano degli italiani. Berlino ricevette la notizia e si mise in comunicazione con Roma, che a sua volta comunicò l'accaduto a Lisbona. Da lì partì l'ordine per l'Alfonso de Albuquerque, che arrivò a mezzanotte del 28 novembre. Il comandante mandò in giro la ronda per raccogliere tutti i marinai e salpò con l'equipaggio incompleto. Seguendo un itinerario prestabilito e studiato in base alla posizione e al vento, stabilì su una carta di navigazione un rettangolo da perlustrare. Il rastrellamento cominciò all'arrivo sul posto e la nave, andando a zig-zag, raccolse i superstiti. Egli è soddisfatto del lavoro ed è convinto di aver fatto il possibile per la raccolta dei naufraghi. Infatti, non poteva essere altrimenti. Tutto il rettangolo è stato perlustrato minuziosamente ed il pomeriggio del giorno seguente, finita la missione, diede ordine di rientrare a Lourenco Marques.

Gli ufficiali della Marina Mercantile Italiana di stanza a Massaua si congratulano con lui per il bel lavoro fatto e per l'attivo lavoro dei marinai portoghesi, che, prodigandosi fino all'inverosimile, hanno dato tutto di se stessi per il buon esito dell'impresa.

Ci si sistema pian pianino. Gli inglesi alla spicciolata se ne partono per il Sud Africa. Noi italiani ci sistemiamo in case, in pensioni e viviamo da rifugiati, attendendo sempre, di giorno in giorno qualche notizia che ci possa interessare. Intanto gli avvenimenti italiani precipitano e la situazione diventa critica.

Il Console non sa dove attaccarsi per rispondere alle nostre richieste. Abbiamo bisogno di tutto e di essere assistiti, perché, con tutta la nostra buona volontà, ci è vietato lavorare. Qualcuno riesce a entrare in qualche ditta, ma la ditta è minacciata di chiusura se non licenzia il volenteroso.

A braccia conserte, si assiste inoperosi agli avvenimenti, ma conserviamo la nostra calma e tutto ci sembra interessante e ci serve per mantenere in attività la nostra mente.

Arriva l'Armistizio a complicare ancora più la nostra vita. Litigate tra connazionali di idee differenti, espulsione del Console, dichiaratosi per la Repubblica. Passiamo tutti, seduta stante, sotto il controllo della polizia portoghese.

Intanto si apprende che alcuni corpi mutilati sono giunti sulla spiaggia orientale dell'Africa nei pressi di Durban. Dicono che sono di italiani periti nel naufragio.

Ci si priva di qualche sigaretta, che è la nostra compagna nell'ozio, si evita di comprare un paio di scarpe per risparmiare e si riesce a raccogliere circa diecimila scudi. Servono per un monumentino da costruire nel cimitero di Durban dove sono sepolte circa 120 salme di italiani. Il monumento rappresenta una colonna spezzata, travolta dalle onde.

La Polizia lavora per il nostro  rimpatrio. Precedono i vecchi, gli ammalat1, seguono gli indesiderabili, classificati tali dalla Polizia, infine partono i desiderosi di tornare a casa. Alcuni restano perché hanno trovato lavoro e sperano nell'avvenire. Ancora una volta si riattaccano a questa terra d'Africa, da cui potevano essere scacciati per sempre. Sentinelle avanzate,
guardano il mare infido, che, come un immenso sarcofago, raccoglie le spoglie di qualche amico caro che l'Africa aveva fatto conoscere.

Ogni tanto la mente cade lì, torna ai momenti tragici e tutto sembra oggi più bello. La vita sta continuando........

Vitale Moffa

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